Quantcast
Channel: L'irôla de'«Filés»
Viewing all 195 articles
Browse latest View live

Ciao Carla…

$
0
0


L’ultimo abbraccio
di Agide Vandini








Carla vicino a mia madre

Mia sorella Carla ci ha lasciato poco fa. Verso le 10 di stamattina, il mio amorevole angelo custode ha posto fine alla sua lunga sofferenza, addormentandosi per sempre.
Eravamo preparati in famiglia, come sempre avviene davanti al male che avanza inesorabile, ciò nonostante il dolore che invade il cuore è immenso, l’emozione inarrestabile.
Gli ultimi mesi Carla li ha trascorsi nella propria casa sopportando l’infermità con una forza incredibile, circondata e confortata dalle cure e dall’affetto di tutti i suoi cari. Giovanni soprattutto è stato un gigante: la colonna portante che ha retto il peso di una situazione sempre più impegnativa sia sotto l’aspetto morale che materiale.
Nei momenti di sconforto mia sorella ha spesso invocato nostra madre affinché la prendesse fra le sue braccia. Così l'immagine che ho scelto per il mio ultimo abbraccio credo sia la più appropriata, quella che, in questo momento,  le farebbe più piacere diffondere.
Ciao Carla. Anche gli angeli impareranno presto a conoscerti e ad amarti.
Agide


PS: Il funerale avrà luogo Giovedì 26 con partenza dall'area mortuaria di Argenta alle 14,30 e sosta alla chiesa di Filo per la funzione religiosa. Il corteo continuerà fino al Cimitero del paese da cui il feretro proseguirà per l'area crematoria di Ravenna.

Ringraziamento

$
0
0


L’addio a Carla
di Agide Vandini






Carla è partita ieri per il suo lungo viaggio, dopo il toccante rito funebre e dopo i giorni del dolore struggente in cui tantissima gente, un numero infinito di persone, ci ha voluto testimoniare la sua vicinanza e il suo cordoglio.
Tanti l’hanno fatto di persona, gli amati filesi sono accorsi in massa al corteo, altri lo hanno fatto via mail o via SMS, una lunga fila di messaggi, in massima parte di lettori ed amici di questo blog che mi hanno aiutato molto e per i quali voglio esprimere in un unico lungo e intenso abbraccio  tutta la mia riconoscenza.
Li conserverò e li trasmetterò scrupolosamente anche a Giovanni e ai miei nipoti.
A fianco il ricordino di mia sorella Carla.
Grazie ancora.

Agide
 

E’ cino (Il cinema)

$
0
0


Racconto in dialetto filesediOrazio Pezzi
(Presentazione, trascrizione e traduzionedi Agide Vandini)



L’ex Cinema-Teatro Tebaldi (foto 2015), ora locale ad uso abitativo e commerciale.


Sorse quasi ottant’anni fa, negli anni dell’Anteguerra, il Cinema-Teatro di Filo, una costruzione che all’epoca prendeva il posto della più modesta sala del Palazzone. La sua storia ben documentata ce la raccontò nel 2002 Egidio Checcoli in «Filo della memoria» (pp. 93-94):

[…] Il 28 ottobre dello stesso anno [1937 n.d.A.] venne inaugurato il cinema teatro Impero con la proiezione del film L’avorio nero. Per Filo fu un avvenimento storico che creò entusiasmo e curiosità e aiutò a dimenticare le privazioni e le preoccupazioni quotidiane.
L’edificio fu costruito su progetto dell’Ingegner Tieghi, tecnico dell’Eridania di San Biagio, per conto di una società costituita da cinque tra fratelli e cugini Tebaldi. Il costo dell’iniziativa fu di 250.000 lire, compresi il proiettore e gli arredi. L’opera fu realizzata dal gruppo dei “Muratori” di Filo, con la direzione del capomastro Guido Forlani del Molino di Filo.
Con 450 posti di platea e 150 di galleria, gli incassi della domenica superavano talvolta le mille lire.
A suggerire il nome del teatro fu nientemeno che il prefetto di Ferrara; nel dopoguerra, più modestamente, cambierà il nome in Cinema Tebaldi […].

Orazio ci propone un simpatico ricordo del vecchio Cinema, quello che abbiamo conosciuto noi, i ragazzi del dopoguerra, attraverso un racconto dialettale breve ma assai efficace: un piacevole amarcord che, proprio per l’immediatezza e la familiarità della lingua madre, pare retrocedere le lancette del tempo fino a farci rivivere i momenti magici della nostra giovinezza. Sono momenti e luoghi che, in un piccolo paese sempre più stravolto dalla modernità, e in cui sono state spazzate via tante cose e persone care, per chi ha già tanti capelli bianchi, ancora vivono e risplendono nel più profondo del cuore (a.v.).
 
°°°
  


E’  Cino

 U s'andéva ae’ cino ae’ žuba, ae’ sàbat
e a la dmènga.
Dal vôlt u i éra nènc e’ döpi prugram,
ad sòlit ae’ sàbat séra.
E’ cino l'éra žö dla strê,
una rata repida repida,
cun una scalinê ad fiènc,
da lè u s paséva nèca
pr andê ae’ chèmp spurtìv.
Da d fura un éra un gran chè,
e déntar poc mej,
 però l'éra e’ pasatemp de’ paéš
insem ae’ palòñ e ae’ Cafè.
E’ cino l'avéva e’ d ciòta e e’ d cióra.
Pr andè d cióra u i éra do schêl
òna d quà e òna a d là, cun du ingrĕs,
e u s’andéva a mĕts isdé
in dal pultrunzèn ad legn
(s’avlèñ ciamêli acsè)
 mĕsi in fila so in di’ gradóñ ad legn
chi andéva insĕna a la muraja
e, int e’ mëž,
insĕna a la cabena dla machina.
E’ d cióra l'avéva una ringhìra,
e acustêda a la ringhira u i éra
una fila ad scaràñ ciamëda "la Bëla Vĕsta",
la fila dal ciàcar e di’ pitigulĕz.

E’ d ciòta l'éra pio grand,
cun du ingrĕs a d qua e a d là dla biglietereia,
 parëci fila ad pultrunzen,
 cun tri curidùr, du int i fiénc e òñ int e’ mëž.
 Söta ae’ tlòñ de’ cino u i éra e’ pêlc
Ch’l'era bël grand e tot ad lègn.
Ma a lè u n s'andéva sól ae’ cino
u s'andéva nèca a balê.
Ae’ cino ad Fìl u s baléva tre vôlt d'invéran;
i 23 ad dizèmbar, l'ultma nöt dl'àñ, 
e par Sant'Egta.
Agli éra agli ucašiòñ par al ragazi
ad fes d’avdé,
 par mĕtar e’ nëš fura d’in cà
e incuntrê di’ filarĕñ.
Bëli fëst! A sunê l'avnéva :
Casadei,  Baiardi, Castellina Pasi
e tŏt i mej dla Rumagna.
L'urchëstra la stašéva sŏ int e’ pêlc,
söta u i éra do fila ad tavlĕñ,
intóran a tota la sêla
una fila ad tavlen acusté al muraj,
int e’ mëž u s baléva.

Baiardi l'avéva una cantênta che
a cantê l'éra acsì-csò mo l'éra bëla,
i cavĕl biŏnd,
una vôlta lŏng, una vôlta a caschèt,
sèmpar in rös e in stanlina curta. 
Mariša la s ciaméva,
la n daséva briša cunfidenza
parchè Baiardi un'avléva.
Una vôlta a m’arcùrd che
par colpa mì la ciapè un cichèt.
Durènt al fëst da bàl
us putéva andê nèca ad cióra,
indó che la «Bëla Vĕsta» l'éra sèmpar pina
e ocupêda dal ciacaróñ de’ paéš. 
Ló agli avéva la mšura dal tèt
stampêdi sóra e’ mantéñ dla ringhìra;
 se Tebaldi l'avréva agli öt,
 ló al sët e trì agli éra ža a lè
 prónti a ciapê e’ pöst,
u ngn éra gnìt ch’u li putĕs farmê,
la fàm ad nuvitê,
la cunferma d’un quèlc suspĕt
e’ svulês ad quêl che
«chi ch’l'avrĕb mai dĕt…»,
l'avéva tröpa impurtanza
pr al ciàcar da fê par tŏt l'àñ
che u ngn éra temp da pérdar
par nö fês fraghè e’ pöst.
Al ciacaróni agli éra pĕž
ch’n’è un plutòñ d'esecuzion,
schierêdi in baterèia al cuntruléva
ogni mösa ad quèst e ad quèl
e pu: « Ét vĕst che avéva rašòñ..»
«Mo la n'éra l’ambróša ad quèl...»
«Va mo là, u s l’è fata scapê
e lì l'à truvè un êtar…»
«Toh guèrda chi dù!
Mo quèl u n’è e’ fiol dla ...»
«Oh! Guerda chi du pizòñ…»
«Seh, du pizòñ…
Mo s’i diš che lì la i fa al côran…»
U s po’ dì che, dòp a la fësta,
 agli avéva finalment agl'idei ciêri
sóra quèl che zuzidéva a Fìl. 

E’ cino Tebaldi l’è un pëz ad stôria de’ paéš,
l'à fàt e sfàt al cöpi pio bëli,
l'à vëst a pasê tŏt i filìš,
i amùr, al dilušiòñ, l'aligrèia,
al canzunèt, i žùvan e i anzièñ,
 l'à sintì al maravèj dal ciacaróni
che agli à cušì a tŏt un vstì
che ignòñ l'à purtê senza savél:

CINEMA TEATRO TEBALDI
STATE COMODI STATE CALDI

Il cinema

 Si andava al cinema al giovedì, al sabato
ed alla domenica.
A vo9lte c’era anche il Doppio Programma,
Di solito al sabato sera.
Il cinema era in basso rispetto alla strada,
una discesa molto ripida,
con una scalinata a fianco,
di lì si passava anche
per andare al campo sportivo.
Visto da fuori non era un gran che,
e dentro poco di meglio,
 però era il passatempo del paese
assieme al pallone ed al Caffè.
Il cinema aveva il “di sotto” e il “di sopra”.
Per andare di sopra c’era due scale
Una di qua ed una di là con due ingressi,
e ci si andava a sedere
 in poltroncine di legno
(chiamiamole così)
 Messe in fila su larghi gradoni di legno
Che salivano fino al muro
e, nel mezzo,
fino alla cabina del proiettore.
Il «di sopra» aveva una ringhiera,
accostata alla quale stava
una fila di sedie chiamata "la Bella Vista",
la fila delle chiacchiere e del pettegolezzo.

Il «di sotto» era più vasto,
con due ingressi ai lati della biglietteria,
molte fila di poltroncine,
 con tre corridoi, due ai fianchi ed un al centro.
 Sotto il telone del cinema c’era il palco
Grande per tutta la larghezza e di legno.
Ma lì non si andava soltanto al cinema
Si andava anche a ballare.
Al cinema di Filo in inverno si balla tre volte;
il 23 di dicembre, l'ultima notte dell’anno, 
e per Sant'Agata.
Erano occasioni per le ragazze
 per farsi vedere,
per mettere il naso fuori casa
ed incontrare spasimanti.
Belle feste! A suonare venivano :
Casadei,  Baiardi, Castellina Pasi
e tutti i migliori della Romagna.
L'orchestra stava sul palco,
sotto c’erano due fila di tavolini,
per tutta la platea
una fila di tavolini accostati al muro,
ed al centro si ballava. 

Baiardi aveva una cantante che
a cantare era così così ma era molto bella,
capelli biondi,
una volta lunghi, una volta a caschetto,
sempre in rosso e minigonna. 
Marisa si chiamava,
non dava confidenza per nulla
perché Baiardi non voleva.
Una volta, ricordo che
Prese un rimprovero per colpa mia.
Durante le feste da ballo
Si poteva andare anche «di sopra»
dove la «Bella Vista» era sempre piena
e occupata dalle pettegole del paese. 
Loro avevano la misura dei seni
stampate sopra il corrimano della ringhiera;
 se Tebaldi apriva alle otto,
alle sette e tre quarti erano già lì
 pronte a prendere il loro posto,
non c’era nulla che le potesse fermare,
la fame di novità,
la conferma di qualche sospetto
il manifestarsi di cose che
«chi l'avrebbe mai detto…»,
aveva troppa importanza
per le chiacchiere da fare per tutto l’anno
sicché non c’era tempo da perdere
se non si voleva farsi soffiare il posto.
Le pettegole erano peggio
di un plotone d’esecuzione,
schierate in batteria controllavano
ogni mossa di questo o di quello
e poi: « Hai visto che avevo ragione..»
«Ma non era la morosa di Tizio...»
«Guarda un po’, se l’è fatta scappare
E lei ha trovato un altro…»
«Toh guarda quei due!
Ma quello non è il figlio della ...»
«Oh! Guarda quei due piccioni…»
«Eh sì, due piccioni…
Ma se dicono che gli fa le corna…»
Si può dire che, dopo la festa,
 avevano finalmente le idee chiare
riguardo a quanto succedeva a Filo. 

Il cinema Tebaldi è un pezzo di storia del paese,
ha fatto e disfatto le coppie più belle,
ha visto passare tutti i filesi,
gli amori, le delusioni, l’allegria,
le canzoni, i giovani e gli anziani,
 ha vissuto lo stupore delle pettegole
che hanno cucito a tutti un vestito
che ognuno ha portato senza saperlo:

CINEMA TEATRO TEBALDI
STATE COMODI STATE CALDI














Anni 1965 e 1966 - Festa degli studenti al Cinema-Teatro Tebaldi. Ecco tre foto di cui riporto i nomi della famigerata :”Banda del gelato alla fragola”. Nella foto sopra, in piedi: Luciana, Sandra, Beniamino, Carla, Osvaldo, Robert, Rosmeri, Beppino e Ilde; accosciati: Agide, Silvano, Orazio, Giorgio e Rita. Nella foto sotto: Robert, Beppino, Beniamino, Diana, Lelia, Rita, Sandra. Nella foto a destra, Luciana e ai suoi fianchi, i due autori di questo brano: Orazio e Agide.

Il «Pranzo della Liberazione»

$
0
0


Una iniziativa della Sezione ANPI di Filo
di Agide Vandini


La locandina

Il 14 aprile di settant’anni fa nel paese di Filo finiva l’occupazione nazifascista.
La locale sezione dell’ANPI ha pensato di indire per l’occasione un “pranzo della Liberazione” a Villa Vittoria nel segno della migliore tradizione culinaria filese, cui seguirà un pomeriggio musicale con la presenza del Gruppo Folk Nuovo Controcanto Popolare, composto dai cari amici di Brisighella:

Umberto Rinaldi: voce e chitarra
Gabriele Laghi: contrabbasso e cori
Ilaria Petrantuono: flauto e cori
Enrico Giorgi: fisarmonica e cori

Ci presenteranno i loro Canti Tradizionali di Libertà, ovvero una piccola storia musicale delle lotte per la libertà nella tradizione popolare.
Il menu proposto e le modalità di partecipazione sono puntualmente esposti nella locandina.
Estendo a tutti gli amici di questo blog l’invito a partecipare numerosi alla bella iniziativa, nel corso della quale, verrà consegnato un attestato ai tesserati-partigiani filesi tuttora viventi.
Vi aspettiamo.


La «Maratona»

$
0
0


Anno 1993, fra Natura e Memoria
di Giovanni Pulini



Pubblico con estremo piacere questo breve racconto che Giovanni, ex partigiano, filese da anni residente a Bologna, ha scritto per il blog.
Nell'occasione debbo purtroppo annunciare la triste perdita, avvenuta in queste ore, dell'amico Ottavio Lazzari (detto Cencio): l'ultimo partigiano filese (e associato all'ANPI locale) che era ancora in vita, cui dedicai un anno fa un articolo-intervista, tuttora fruibile sull'Irôla.
Appena due giorni fa, il 14 aprile,  ricorreva  il 70° della Liberazione di Filo cui partecipò giovanissimo militando nella  Brigata Garibaldi, la 36bis «Mario Babini», che operò sotto il comando di Antonio Meluschi.
Domani 17 Aprile (ore 15) l'estremo addio al caro Cencio (a.v.).


 °°°

Quando ti senti addosso il traguardo della vita, la mente spazia nel passato scavando nei ricordi anche di poco conto.
A volte, nella solitudine che mi caratterizza, affiorano alla mente momenti ed episodi che mi piace raccontare, come quello della memorabile «Maratona» del 1993 che ricorre spesso nei miei pensieri.
Ero già pensionato negli anni  80, e a quell’epoca trascorrevo l’intera estate in una località marittima: Punta Marina Terme. Nel paese avevo un amico, Giulio, conosciuto in tempo di guerra e, tramite lui, mi era facile socializzare con molta gente del luogo.
Le passeggiate nella pineta al mattino presto erano il mio passatempo preferito.
La pineta, alle prime luci dell’alba, mi conquistava per i suoi intensi profumi del sottobosco, della resina, del Calicantus la cui fragranza tanto intensa si estendeva per tutta la pineta; sembrava che la natura avesse messo in sintonia tutti questi profumi con il “fischiettio” degli uccelli.  Alle prime luci del giorno il cinguettio ed i profumi si fondevano, e l’usignolo, con il suo canto, fungeva da direttore dell’orchestra che la natura gli metteva a disposizione. I sentieri diventavano serpeggianti per lasciare spazio ai rovi che la facevano da padrone.
Con sorpresa si potevano incontrare altre persone che, come me, rimanevano affascinate dal paesaggio e dagli odori di un luogo incantato e magico. Eravamo sempre gli stessi ad augurarci il buongiorno, a raccontarci con piacere i nostri reciproci passati, esperienze che quasi sempre, si assomigliavano un po’. Ci accomunava il piacere di percorrere sentieri senza inquinamento.
Il Dottor Pirazzini, che faceva parte del gruppo di indomiti camminatori, propose un bel giorno di organizzare una vera «Maratona» tutta per noi. L’idea ci conquistò e si stabilirono delle regole: solo gli ultrasessantenni potevano partecipare ad un percorso che non avrebbe dovuto essere inferiore ai 43 chilometri.
Il giorno successivo, al Bagno Pelo, si continuò la messa a punto dell’impresa e si decise che il percorso: da Punta Marina a Filo, utilizzando solo sentieri, quei sentieri che fin da ragazzo avevo conosciuto bene e che tante volte avevo percorso durante la guerra e la mia militanza partigiana. Due vetture, guidate da Giulio e dal Dottor Pirazzini, ci avrebbero seguito e riportati al punto di partenza.

 Il territorio da Punta Marina a Filo


Il 20 luglio 1993 fu la data prestabilita per la nostra «Maratona».
Nelle automobili vennero caricate dieci bottiglie di un noto integratore salino, molto reclamizzato all’epoca, una ventina di “rosette” e 500 grammi di mortadella, oltre, naturalmente, ad un canestro di disinfettante, bende per fasciare eventuali ferite e cerotti.
Il primo contatto fra noi maratoneti e le auto fu fissato al traghetto di Sant’Alberto.
Percorremmo sentieri di campagna nella Valle del Lamone, zona a me poco conosciuta, ma dove erano ancora ben visibili i segni lasciati dalla guerra: cippi e lapidi ricordavano ragazzi uccisi dai fascisti e dai Tedeschi, ragazzi colpevoli soltanto di aver combattuto per la Libertà a la Democrazia.
Raggiungemmo Sant’Alberto ed il traghetto ci portò sull’altra sponda del fiume Reno: si apriva ai nostri occhi la Valle di Comacchio nella sua vastità e una lingua di terra, Bosco Forte, si estendeva per un chilometro circa coperta di cespugli di tamerici color verde argentato, e di alberelli di acacia di colore verde scuro. Là, sulla punta di questo tappeto verde, spuntava una casa di caccia e davanti ad essa un basso pilastro era stato eretto alla memoria dei caduti per la Libertà.
Sulla nostra sinistra scorgemmo un branco di fenicotteri che nei fondali bassi cercavano nutrimento: uno spettacolo da sogno!
Dopo qualche scambio di battute riprendemmo il cammino accordandoci con gli autisti: il successivo contatto sarebbe avvenuto a Madonna dei Boschi.
Ci  rimettemmo in viaggio sul sentiero in cima all’argine e poco più avanti un grande cippo ricordava il sacrificio di morti ammazzati dai Tedeschi, due di loro li avevo conosciuti.
Il riaffacciarsi di un vissuto ancora così vivo nella mia memoria, nonostante i molti anni trascorsi, riportava i miei sensi indietro nel tempo: provavo di nuovo, in quel momento, angoscia, apprensione, timore di una rappresaglia incombente, proprio come cinquant’anni prima! Quel percorso, e quei luoghi un tempo familiari, mi facevano dunque rivivere ricordi angosciosi e mai cancellati.
Finalmente arrivammo a Madonna dei Boschi, lì ci rifocillammo, qualcuno si fece medicare i piedi, mangiammo qualche panino e ripartimmo alla volta della meta stabilita: Filo, il mio paese.
Raggiungemmo la nostra ultima destinazione sfiniti, ma ce l’avevamo fatta!
Quando tornammo a Punta Marina fummo festeggiati da tutti i presenti al Bagno Pelo ed il titolare del ristorante ci offrì il pranzo.
Personalmente ho sempre ritenuto questa singolare «maratona» un’esperienza soddisfacente, anche se ha presentato due aspetti molto diversi fra loro: da un lato la pineta mi ha avvicinato ad un luogo incontaminato e magico, dall’altro il percorso lungo l’argine del fiume mi ha rinnovato tanta angoscia e sofferenza.

                                                                                                  (Giovanni Pulini, 8 Aprile 2015).

Liberazione di Filo – 70 anni dopo

$
0
0


Il pranzo, la festa, la giornata del ricordo
di Agide Vandini



E’ stata un successo la giornata organizzata dall’ANPI di Filo, nella ricorrenza del 70° della Liberazione del paese avvenuta il 14 Aprile 1945. La collaborazione coi volontari di Villa Vittoria e le preziose capacità organizzative della segretaria Agnese Brunelli hanno permesso di radunare tanta gente. Presenze numerose e qualificate che hanno potuto gustare i tradizionali piatti della nostra cucina e ritrovarsi assieme, nel ricordo di un giorno tanto importante della nostra storia.
Il pomeriggio è poi trascorso in compagnia delle belle canzoni proposte dal Gruppo “Controcanto Polpolare” composto da amici dell’ANPI Brisighella cui ci legano sentimenti particolari, nel ricordo dei nostri combattenti partigiani in quel territorio.






E’ stata anche l’occasione per rendere un doveroso omaggio ai partigiani filesi che combatterono qui, fra le Valli ed il fiume, per la Libertà e la Democrazia. 
A nome di tutti loro, abbiamo pensato di rilasciare due speciali pergamene. La prima a Giovanni Pulini, associato all’ANPI di Bologna, partigiano operante nella zona di Longastrino-Madonna Boschi, filese trasferitosi nel capoluogo regionale nel dopoguerra, autore di preziosi testi e testimonianze scritte, che nell’occasione ha fatto dono alla nostra sezione di un esemplare originale del minaccioso proclama Graziani emesso dalla Repubblica di Salò.
Le parole di Giovanni, lette nell’occasione dalla figlia Vanna, le riporto nel riquadro a lui dedicato.
La seconda pergamena è stata dedicata ad Ottavio Lazzari, ultimo nostro associato partigiano a lasciarci proprio la settimana scorsa. «Cencio», che ho intervistato per il blog un anno fa, era – non tutti lo sanno - nipote di Vincenzo Antonellini, martire antifascista, ucciso di botte nel 1922. L’attestato è stato consegnato «alla memoria» nelle mani della emozionatissima nipote Eleonora (vedi foto) ancora provata dal dolore e dalla commozione per la recentissima perdita.
Il ricordo di Ottavio e di tutti i suoi compagni di lotta nelle Brigata Garibaldi è perciò ben vivo e non ci abbandonerà mai. Così come la gratitudine per quanto hanno fatto per noi, per la nostra dignità e Libertà.






A FILO, NEL 2015, DOPO SETTANTA ANNI

Innanzi tutto voglio ringraziare tutti coloro che si sono adoperati per organizzare questa piacevole giornata di festa. Un ringraziamento va a chi ha pensato di invitare anche me: è come se ritornassi a casa dalla tragedia della guerra, dopo 70 anni.
In questi giorni, settanta anni fa, a Filo e nelle campagne si raccoglievano i morti in quanto i Tedeschi, nel ritirarsi,  avevano lasciato terra bruciata disseminando mine in luoghi affatto strategici, ma al solo scopo di colpire la gente del paese che, sollevandosi contro di loro, li aveva umiliati. I Tedeschi, nel loro disordinato ripiegamento, incalzati dall’Esercito dell’ottava armata, dai partigiani e da tutto il paese, avevano piazzato esplosivo alle porte delle abitazioni e dentro gli armadi delle stesse provocando la morte di tutti coloro che rientravano nelle loro case: la gente saltava per aria insieme alle porte e agli armadi!
I filesi devono essere orgogliosi per la loro opposizione al regime fascista, opposizione nata nei giorni in cui il fascismo stesso nasceva. Filo ha il diritto di andare fiero di un’attività clandestina alla quale tutti, uomini e donne, parteciparono con astuzia e decisione. Un plauso particolare va al contributo dato dalle donne che in tanti modi hanno collaborato. Mi riferisco in particolare alle donne che nell’inverno 1944/45, nelle stalle,  sferruzzavano matasse di lana per ricavarne calze, maglie, passamontagna e quant’altro fosse possibile per i partigiani che, acquartierati nelle valli, combattevano pagando un prezzo altissimo in morti: hanno combattuto per la Democrazia e la Libertà di tutti, anche di quelli che erano dalla parte opposta.
Vorrei raccontare una mia personale esperienza
Nel marzo del 1944,  un bando, come quello che si vede qui, includeva anche il mio periodo di nascita: io mi diedi latitante, scappai di casa e mi stabilii presso una famiglia ad una ventina di chilometri da Filo. Mi sfamavo grazie alla generosità della gente, dormivo nei fossi o sotto i ponti dei canali, mi coprivo con una coperta datami da un’anziana donna….ho visto tanta generosità senza aver mai chiesto nulla. Dopo qualche mese, con altri, cominciai a fare azioni di guerra.
Voglio concludere rivolgendomi ai giovani: non guastate questo patrimonio che i vostri nonni vi hanno consegnato.
La Democrazia non è mai data per scontata e per questo motivo va difesa! (Giovanni Pulini, Filo, 19 aprile 2015)                                                                                             








“Schegge di pace”

$
0
0


in Piazza del Mercato Argenta
di Fulvia Signani



 
Domenica 10 Maggio alle ore 21.00, ad Argenta nell'area esterna del Centro Culturale Mercato, nella suggestiva cornice delle colonne marmoree salvate dal terribile bombardamento del 1945, si svolgerà l'attesissimo spettacolo che chiude l'edizione 2015 del Caffè Letterario.
L’associazione culturale “Pennuti e Contenti” offre lo spettacolo in letture e musica “Schegge di pace”. Una denuncia dell’obbrobrio della guerra, dello stupore di come ancora si miri all’eliminazione fisica dell’avversario, della degenerazione dei conflitti, che coinvolgono non più solo gli eserciti, ma le masse, i civili.


Le voci, i racconti di persone comuni, colpite indelebilmente dalla guerra, trafiggeranno come schegge, coscienze e sensibilità in una visione di speranza.
Letture di Rita Cassani, Mara Guerra, Margherita Malinconi, Fulvia Signani, Maurizio Piolanti, Valentina Preti, musiche originali di Paolo Brunelli, Dario Lusa – sax, Mario Lo Presti – chitarra.
In caso di maltempo l'evento si svolgerà nella sala “Piccolo Teatro” del Centro Culturale Mercato.
Al termine dell'incontro, degustazione di prodotti del nostro territorio.

L’associazione culturale “Pennuti e Contenti” è nata nel 2008 da un Corso di scrittura creativa della Biblioteca di Argenta e da allora ha pubblicato volumi, organizzato un premio nazionale, un corso di scrittura, allestito eventi pubblici a Lugo, Montesanto, Bagnacavallo, Marina Romea, San Biagio, Ferrara, da quattro anni partecipa all’organizzazione del ciclo Caffè Letterario tenuto dal Comune di Argenta e offre uno spettacolo originale, frutto delle proprie scritture e letture.
L’impegno dell’associazione è sempre più orientato a temi di utilità sociale, in particolare il dono e la pace.  L’associazione ha sede a Filo d’Argenta, la Presidente è Fulvia Signani, la Vicepresidente Valentina Preti. Gli spettacoli sono arricchiti dalle musiche di Dario Lusa e la danza di Margherita Malinconi (figlia di Fulvia).

Il tandem

$
0
0


Memorie dal  «Quaderno»
di Giovanni Pulini


 Con questa mia memoria vorrei cercare di dare un vissuto ad un periodo, dal 1940 al 1943, quando la miseria era un luogo comune e nessuno ci faceva più caso.
 Tutta la mia famiglia era  impegnata in un lavoro in proprio: mio padre prendeva in affitto terreni ed argini per la fienagione. Il foraggio, in quel periodo, era molto ricercato in quanto l’Italia era entrata in guerra con un Esercito dove il cavallo ed il mulo erano i mezzi di trasporto.
Mio padre acquistò un cavallo e noi costruimmo un biroccio. In famiglia erano disponibili solamente due biciclette che dovevano essere condivise da otto persone, quali erano i componenti della mia famiglia,  perciò il cavallo, ed il biroccio, ci servivano come mezzo di trasporto sia per persone che utensili da lavoro.
Io ero il cocchiere della famiglia, governavo il cavallo, ero il responsabile del nostro mezzo di trasporto. La fienagione era solo stagionale, per lo più estiva, e nei periodi morti offrivo piccoli trasporti per chiunque ne avesse avuto necessità.
 Nel mio paese, Filo, un signore vendeva mobili, ma non aveva mezzi di trasporto autonomi cosicché chiese a mio padre se potesse fare trasporti per suo conto col nostro cavallo e biroccio. Il lavoro consisteva nel recarsi a Lugo di Ravenna, caricare mobili e portarli dalla fabbrica al negozio e da qui, una volta venduti, al cliente finale. Era un lavoro che mi piaceva, che mi faceva sentire importante, mi faceva sentire già uomo, nonostante fossi poco più di un ragazzo. Casimiro Beppino Andalò, questo era il nome del mobiliere, era una gran brava persona e alcune volte, recandomi a Lugo con lui, mi portava a mangiare in trattoria e ciò mi dava modo di ingerire cibo che a casa mia non si mangiava.
Un giorno Casimiro mi disse di passare dal negozio che aveva qualcosa per me: mi regalò un tandem, modernamente accessoriato, poiché ben conosceva le esigenze della mia famiglia.  Dal mio punto di vista non era solamente una bicicletta, ma rappresentava un mezzo che mi dava un tono di benessere; al mio paese, Filo, non c’era nessun altro che avesse questo privilegio.




Il lavoro mi aveva fatto crescere in fretta, il mio fisico era maturato presto, a sedici anni avevo già una barba da uomo, avevo già scoperto il sesso, frequentavo persone più grandi di me, i miei amici avevano superato i venti anni, fumavo qualche sigaretta offertami da Casimiro, uomo benvoluto da tutti e buon padre di famiglia: venne fucilato, insieme ad altri,  l’8 settembre 1944.
 Solamente coloro che erano ragazzi in quel periodo possono capire il disagio che esisteva fra ricchezza e povertà.  Spesso andavo in giro nei paesi limitrofi per farmi vedere sul tandem e per questo oggetto di lusso ero spesso invidiato.
La memoria mi riporta vividamente ad un episodio di quel periodo.

 Durante il mese di maggio del 1943 spesso la domenica, noi amici e ragazzi,  andavamo in gruppo a Porto Corsini, oggi Marina di Ravenna. Si partiva presto al mattino con una sporta di pane, la frutta l’avremmo rimediata durante il tragitto, ma non sempre si avevano i soldi per comprare il companatico. Mio fratello ed io ci sentivamo soddisfatti del nostro tandem anche se nella sporta portavamo solo pane.
 La strada che da Ravenna porta al mare costeggiava il porto canale e, sulla parte opposta,  alcune bancarelle vendevano un po’ di tutto; in una di quelle gite comprammo mezzo chilo di pesciolini fritti, una spesa che non sempre si poteva fare e non ricordo come quel giorno avessimo i soldi per farlo. I costumi da bagno si prendevano a noleggio e questo dava il diritto di depositare le biciclette oltre all’uso di un capanno dove si potevano lasciare vestiti e borse. Noi ragazzi gironzolammo un po’ per la spiaggia quasi deserta, i villeggianti erano pochissimi ed in quegli anni non c’era turismo di massa.
Verso mezzogiorno, dopo aver recuperato le nostre sporte, stendemmo dei giornali a terra a guisa di tovaglia e,  a ridosso di una duna vicino alla pineta, cominciammo il nostro pranzo; dopo pochi minuti uscirono dalla pineta due ragazze in costume da bagno: erano ragazze mature ed il loro abbigliamento rispecchiava una classe sociale benestante. Ci diedero un’occhiata, ma il loro sguardo rimaneva più fisso sul cibo che avevamo preparato, ci superarono di qualche passo poi,  rivoltandosi verso di noi, ci chiesero dove avessimo preso il pane. Ci guardammo rossi in viso per l’imbarazzo e Mario, che era il più grande del gruppo, le invitò ad unirsi al nostro “pranzo”: addentarono il pane e ci fecero un’infinità di complimenti per la bontà dello stesso. Noi ragazzi per la vergogna non aprimmo più bocca!
Dopo poco un uomo, padre di una delle ragazze, arrivò e le rimproverò, le due si giustificarono dicendo che mai avevano mangiato un pane di qualità così eccellente, il signore non poté verificare poiché del pane non c’era più traccia! Ci chiese dove lo avessimo acquistato e Mario spiegò che la madre, il giorno precedente, ne aveva fatto tanto che sarebbe bastato per una settimana intera. Il signore chiese a Mario, dietro compenso, se potesse averne. Per noi, che non avevamo mai una lira in tasca, la proposta ci sembrò allettante, Mario stesso si offrì di andarlo a prendere, nonostante Filo distasse una trentina di chilometri, e rassicurò che sarebbe stato di ritorno verso sera. Il signore gli consegnò un biglietto da visita pregandoci di presentarci all’Hotel Miramare, dove villeggiava con la famiglia. Mario fu di ritorno verso le diciotto e andammo tutti all’Hotel. All’entrata fummo fermati dal portiere che, nonostante il biglietto che gli stavamo mostrando, incredulo minacciò di chiamare le guardie se non ce ne fossimo andati via. Fortunatamente arrivò il destinatario di quella sporta e spiegò che lui stesso ci aveva invitati. “alle ore venti vi aspetto per la cena” ci disse, prese la borsa con il pane, ma, con nostra grande delusione, non ci diede danaro. Accettammo l’invito seppure con un certo imbarazzo; se ci avesse dato prima i soldi…prima di cena…avremmo tagliato la corda ed il Commendatore, così riportava il biglietto da visita, ma noi non conoscevamo il significato della parola,  non ci avrebbe più visto! Noi ragazzi aspettammo, seduti sopra ad un muretto, le ore venti osservando un grande orologio appeso ad un muro di fronte a noi. Ci presentammo puntuali, ci fecero accomodare in una saletta dove un lungo tavolo era apparecchiato e sopra vedemmo il nostro pane. Arrivarono i commensali, tutti vestiti elegantemente a differenza di noi che non avevamo abiti adatti, ma avevamo il pane, la gioventù e il tandem! Fu offerto un aperitivo in piedi e, mentre gli ospiti parlavano di tutto,  noi ragazzi facemmo gruppo da soli. Finalmente tutti a tavola e  finalmente ci rilassammo in quanto nessuno faceva attenzione a noi. L’attenzione di tutti era rivolta al pane, oggetto di ovazioni. Furono serviti un risotto di pesce prima  e pesce bollito per secondo. Al momento della frutta ci trovammo in difficoltà e nessuno di noi la mangiò: non avevamo mai usato le posate per pulire la frutta e ci giustificammo dicendo che ogni giorno potevamo averne a volontà.
Nel frattempo si era fatta notte e quando Mario  propose di avviarci verso casa il Commendatore gli diede cento lire e ci disse che l’Hotel ci aveva messo a disposizione un motocarro, parcheggiato all’esterno, per riportarci a casa. Caricammo nel cassone le biciclette, il tandem e durante il tragitto ognuno raccontava le proprie emozioni e si rideva a crepapelle. Giunti a casa Mario volle dividere il danaro fra tutti noi, ad ogni costo.
 Quella fu l’ultima estate che trascorremmo con gioia e sonore risate.
 Alla fine del 1943 non si rise più e nel 1944, con il “Decreto Graziani”, si dovettero prendere decisioni importanti.
Mario Guerra, per sfuggire ad una eventuale fucilazione, andò coi Partigiani sulle montagne emiliano-romagnole  dove, in uno scontro con la brigata nera, fu ferito e, portato a Bologna, venne fucilato.
 Anch’io dovetti andarmene di casa per non essere preso e subire la stessa sorte di Mario (Giovanni Pulini, Aprile 2015).

Un secolo fa, il 24 maggio 1915

$
0
0


L’Italia nella Grande Guerra
di Agide Vandini e Beniamino Carlotti


Nella ricorrenza del centenario dell’entrata in guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale, Beniamino Carlotti ci ha mandato un breve ma sentito messaggio di commemorazione, segnalando al nostro blog il suo encomiabile e toccante lavoro, un video molto bello che da tempo ha affidato al web, interamente dedicato ai caduti filesi di quello scontro crudele e cruento che per anni infiammò e cambiò l’Europa.
Il video, il cui link trovate al termine delle sue note, ci propone i nomi e le immagini disponibili dei nostri caduti, cercati per anni e raccolti con cura. Ha in sottofondo l’Inno del Piave ed una lettura d’epoca del vibrante Bollettino della Vittoria  dello stesso generale Armando Diaz del  4 Novembre 1918, parole ancora presenti in qualche edificio pubblico in lapidi enormi, in lettere d’ottone che nel celebre ed emozionante finale annunciano: “I resti di quello che fu uno dei più grandi eserciti della storia risalgono ora in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza. Firmato Diaz”.
Questo stesso bollettino era affisso anche in un muro esterno delle scuole filesi che stavano a fianco della chiesa (oggi giardino dell’ex Asilo Parrocchiale)  assieme ai nomi dei nostri caduti, scuole rase al suolo dai bombardamenti dell’aprile 1945, nomi  persi per anni fino al paziente lavoro di raccolta di Beniamino e di altri ricercatori come Egidio Checcoli, Vanni Geminiani e il sottoscritto.
Filo ricorda con riconoscenza e devozione quei nomi e quel sacrificio di sangue in una strada periferica (Via 24 maggio) e soprattutto nel Monumento dedicato nel 1955 ai “Caduti di tutte le Guerre” (a.v.).

°°°

La Prima guerra mondiale (1915-1918), costituisce uno di quegli eventi che hanno cambiato la storia d’Europa e di tutti i paesi che ne  furono coinvolti e segnò indelebilmente il destino d’ Italia e del suo popolo.
Quattro anni e tre mesi durò il conflitto, vi furono  ben  10 milioni di morti e 21 milioni di feriti, coinvolgendo in Italia quasi 6 milioni di combattenti. I caduti, furono 680.000, per lo più giovani soldati, un’intera generazione andò perduta. 
Ancora oggi, soprattutto nelle piccole comunità paesane, è ancora molto forte e diffusa la memoria di quei tragici eventi e dello straziante dolore provato dalle famiglie dei caduti,  trasmesso poi alle generazioni successive.  
Ricorrendo oggi il centenario dell'entrata in guerra del nostro paese,  a modo mio e con molta umiltà, vorrei ricordare e  commemorare i caduti di Filo, minuscolo paese della Bassa Romagna, affinché non si perda memoria del loro supremo sacrificio,  compiuto nel nome della patria.




Questo il link dello slideshow inserito su You Tube:
                   




24 maggio 21015                                                                Beniamino Carlotti

La guerra di Sintùla

$
0
0


Caduto a vent’anni in combattimento, alle pendici del Monte San Michele
di Agide Vandini




Lo zio Sintùla, ovvero Sante Toschi, fratello maggiore di mia madre Elvira, lasciò i suoi vent’anni nei primi mesi della Grande Guerra, al Bosco Cappuccio nei pressi del San Michele, proprio là dove combatté in quegli stessi giorni il celebre Ungaretti[1], fra reticolati e trincee alle pendici di un «monte» tanto remoto e lontano dalla Bassa Romagna, la terra ove era nato e che aveva accolto la sua breve gioventù.
Alto appena 275 metri, ma considerato strategico per l’attacco a Gorizia, il Monte San Michele evoca ancora oggi una serie di battaglie sanguinose e crudeli, un’altura ove si fronteggiarono forze agguerritissime e che vide morire, prima e dopo quel 31 ottobre 1915, migliaia di ragazzi come il giovane Sante.
Lui era il primogenito di Angela Berti (la dolce e premurosa nonna Angiùla) e Pasquale Toschi (Nunì Capitèni), nato il 12 gennaio del 1895 quando la sua famiglia abitava ancora a Conselice. Lì il nonno, faceva con sapienza e dedizione il contadino e l’arždór nella possessione dell’Ospedale, come già il trisnonno venuto da Campanile, terra degli avi e borgata a pochi passi da Conselice, sia pure amministrativamente sotto la Brušê, ovvero Santa Maria di Fabriago.
Pochi mesi prima della sua nascita, Pascvalèñ aveva sposato l’Angiùla, dolce ventenne di Barizèt (Belricetto), nella Chiesa di San Bernardino (23.2.1894), una cerimonia poi ripetuta in Comune (1.3.1894) come allora era necessario fare. In chiesa ed all’anagrafe i due freschi sposi vollero dare al primo della loro cospicua nidiata di figli il nome di Sante, appartenuto al padre di Angiùla, un uomo scomparso assai giovane nel ’77 quando lei aveva appena tre anni. In famiglia tuttavia l’appellativo del ragazzo divenne l’affettuoso diminutivo dialettale: Sintùla. Quel nome fu del resto ripreso più volte, nella discendenza dei Toschi (I Capitèni), come in quella dei Berti (I Caróz) con alterna fortuna. A Filo dove vennero a stabilirsi alcuni rami di queste famiglie, fra i tanti «Sante» ne abbiamo conosciuti due: Sante Toschi detto Baréra e Sante Berti detto Sintòñ, entrambi personaggi pittoreschi di cui ho avuto il piacere di narrare alcuni gustosi aneddoti pochi annifa, nei libri dedicati ai racconti e personaggi di casa nostra.
Aveva circa quattro anni Sintùla, quando (1899) coi miei nonni e col fratellino minore Antonio (Tugnéñ) si spostò da Conselice a San Patrizio, in un podere che stava in fondo alla Via Guberta, a poca distanza dallo scolo Contina Tagliata.
Un altro suo fratellino (Giuseppe Salvatore) era nato e vissuto per pochi giorni all’inizio del 1897, ma poi, in quel fondo di San Patrèzi, Sante vide nascere, un dopo l’altro, una folta scuderia di fratelli e sorelle: Patrizio (1900), Pia Norma (1901, persa l’anno dopo), Maria (1903), Pia Ida (1905), Giuseppina (1906), Benilde detta Serena (1908), Giuseppe detto Pipèñ(1911) ed infine Elvira (1913), la mia mamma, che però non fu l’ultima nata. A San Lorenzo di Lugo infatti, nella casa contadina di via Pollarola dove la famiglia si trasferì alla fine del ’13, la nonna, allora quarantenne (1914), partorì per la dodicesima volta. Alla piccola fu dato il nome di Tisa, ma sopravvisse purtroppo appena poche ore.
Sintùla, in quel 1914 che stava infiammando l’Europa, aveva diciannove anni e la sua famiglia, che includeva anche la nonna paterna Clelia, si componeva di ben dodici persone: padre, madre, nonna e nove fra fratelli e sorelle. Prima o poi, Sante stato anche lui l’arždór di una famiglia contadina con tante buone braccia, di quelle che, a quell’epoca, lavorando un buon appezzamento di terra, sia pure a prezzo di immani fatiche e sacrifici, difficilmente facevano la fame. Di certo ne soffrivano meno di altre, anche se i nostri contadini, forse ancor più di chi faceva il bracciante a giornata, pativano nel profondo del cuore l’ingiustizia e la rabbia secolare di chi lavorava ogni giorno la terra col proprio sudore e doveva poi lasciare la maggior parte dei frutti a chi la terra non la toccava, ma la possedeva.
Anche per questo c’erano stati nella nostra Bassa i grandi e duri scioperi di inizio Novecento e, proprio in quello stesso 1914, fra l’8 ed il 12 giugno, a ridosso del primo conflitto mondiale (il 28 luglio 1914 l’Austria dichiarò guerra alla Serbia), la Romagna ebbe un fremito di ribellione, nei moti che presero il nome di «settimana rossa»[2].
Di certo non immaginava di andare in guerra il diciannovenne Sintùla, quando, pochi giorni dopo lo scoppio del conflitto (3 agosto 1914), l’Italia, fino ad allora parte della “Triplice” e dunque alleata dell’Austria, si era dichiarata neutrale. Una guerra che non volevano molti industriali italiani (quelli che avrebbero preferito vendere armi a tutti i contendenti), né gran parte del mondo politico, dai liberal-giolittiani, ai cattolici di Benedetto XV, fino alla maggioranza del Partito Socialista che, assai dibattuto al suo interno in Italia ed in Europa, si risolse nell’ambigua formula «né aderire, né sabotare».
Nel giro di pochi mesi, però, ebbero la meglio i liberal-conservatori di Salandra e Sonnino, nonché quei settori dell’industria che aspiravano ai superprofitti di guerra, magari propugnando l’intervento a fianco dell’«Intesa» in nome delle terre irredente e dell’eredità storica del Risorgimento. Fra i Socialisti si dichiararono «interventisti» i riformisti di Bissolati e ad essi si aggiunse il social-massimalista Benito Mussolini che, finanziato dal governo francese, nel novembre del ’14 passò dal campo neutralista a quello interventista-nazionalista e fu di conseguenza espulso dal PSI. A nulla valse la tardiva disponibilità dell’Austria espressa alle concessioni territoriali cui mirava l’Italia. Il 26 aprile 1915, col Patto di Londra, il nostro paese si impegnava ad entrare in guerra a fianco dell’«Intesa».
Fu per questo che a Sante Toschi detto Sintùla pervenne, come a tanti altri giovani romagnoli ed italiani della sua età, la tanto temuta cartolina. Lui fu arruolato nel 147° Fanteria, un Reggimento da poco costituito (20 aprile 1915) e inquadrato nella Brigata Caltanissetta.


Cartolina (Fronte e Retro) del 147° Rgt. Fanteria che assieme al 148° compone la Brigata Caltanissetta, con indicazione delle battaglie combattute nel corso del conflitto. La vignetta centrale raffigura i combattimenti della Seconda Battaglia dell’Isonzo.

Quando il figlio maggiore partì per la guerra, la famiglia di Nunì Capitèni stava ancora a San Lurénz, nel lughese, ma era in procinto di trasferirsi in altro sito a poca distanza da Conselice, a Portonovo di Medicina; lì la famiglia rimase dal 1 Giugno del ‘15 al 14 novembre del ‘16.
Le vicende dello zio Sante, partito per la guerra quando mia madre, sua sorellina più piccola, aveva poco più di due anni, le conosciamo grazie al diario della sua Brigata, una storia che ho ritrovato sul web, scritta in classico stile militaresco. Sono brevi note, quelle relative all’anno 1915, da cui traggo un primo brano:

Partita da varie sedi della Sicilia, la brigata il 9 giugno è a Cusignacco (26° Divisione).
Destinata nella zona Carnica, il 29 è inviata fra Caneva, Resiutta e Moggio Udinese, ma vi permane poco tempo, poiché, il 30 luglio, è trasferita fra Brazzano e Cormons ed il 2 Agosto a Romans, quale riserva del XIV° Corpo d’Armata.


Posizioni al 4 luglio 1915, alla fine della Prima battaglia dell'Isonzo. Si nota come l'Esercito italiano era stato in grado di conquistare due posizioni importanti come Bosco Lancia e Bosco Cappuccio, trampolini per la seconda battaglia dell'Isonzo che inizierà solo qualche giorno dopo la chiusura della prima. Gli italiani non riuscirono comunque a conquistare un'altra posizione favorevole come il Bosco Triangolare che rimase saldamente in mano austriaca.

L’11 agosto [la Brigata] raggiunge il Bosco Cappuccio (28° Divisione) ove schiera il 147° in prima linea e disloca a Sdraussina [oggi Peteano] il 148°, il quale, il 21, è anch’esso in prima linea.
Fino al 17 settembre la brigata sostiene nel tormentato settore una lotta continua, snervante, nella quale i suoi reparti, alternando le azioni ai lavori di zappa, riescono a guadagnare palmo a palmo l’insidioso terreno, serrando molto sotto alle posizioni avversarie dalle quali in qualche punto distano appena venti metri.
E’ un battesimo duro di fuoco che la «Caltanissetta» ha sostenuto molto bene, ricevendo ripetuti elogi dalle superiori autorità. Essa ha perduto in questo periodo di lotta, 29 ufficiali e 1358 gregari.
Il 18 settembre, sostituito in linea, è inviato nei pressi di Versa per il meritato riposo e per il necessario riordinamento[3].

Il fante Sante Toschi, col suo 147 Rgt. Fanteria, rimase perciò ininterrottamente in prima linea per una quarantina di giorni, fra l’11 agosto ed il 18 settembre, durante la cosiddetta «seconda battaglia dell’Isonzo» scatenata nei primi mesi di guerra, attraverso la quale il generale Cadorna credette di poter conquistare Lubiana in poche settimane e di lì puntare su Vienna. Borgo Cappuccio, come Bosco Lancia e Bosco Triangolare nei pressi del Monte San Michele, erano i punti in cui era dispiegata l’agguerrita prima linea austriaca e dopo una Prima battaglia in cui si fu costretti a rientrare alle linee di partenza, nel luglio del ’15, si reiterò il tentativo di sfondamento delle difese nemiche, in particolare a Bosco Cappuccio, vera chiave di volta per la conquista del paese di San Martino del Carso. Le difese austro ungariche, su due linee protette da quadruplice fila di reticolati, con decine e decine di nidi di mitragliatrici, non cedettero[4].
Quella Seconda battaglia dell'Isonzo segnò per l’Italia, nell'estate del 1915, il massimo dello sforzo; quasi tutte le riserve furono impiegate, con un consumo enorme di munizioni e mezzi di trasporto; si esaurirono le scorte di benzina e di cibo. Si rese necessaria una sosta, per colmare le file dei reggimenti con nuovi rincalzi ed attendere l'arrivo di altra artiglieria campale, dal momento che quella utilizzata si era dimostrata largamente insufficiente a coprire il fronte degli attacchi della nostra fanteria[5].
Il 21 ottobre 1915, ebbe poi inizio la furiosa Terza battaglia dell'Isonzo. Alternate le truppe italiane in linea, di fronte al Bosco Cappuccio fu schierata la Brigata Catanzaro cui si aggiunse la Caltanissetta. Nonostante l'eroismo dei fanti, furono conquistate solo modeste posizioni ed avamposti nemici, senza che la difesa fosse minimamente intaccata. La cattiva stagione e l'esaurimento delle Brigate italiane, dissanguate da mesi di inutili assalti, consigliò al nostro Comando Supremo una sospensione delle operazioni[6].

Bosco Cappuccio -- Linea delle trincee italiane da cui muove l'offensiva del novembre 1915 verso Bosco Cappuccio, in fondo.(Dalla rivista L'Illustrazione italiana, 20 febbraio 1916).

Carso, trincee  italiane costruite con sacchi di terra e sassi.
Ripercorriamo comunque i terribili giorni e i movimenti di truppe che interessarono lo zio Sintùla nel Diario di guerra della sua Brigata:

Il 26 Ottobre [la Brigata Caltanissetta] è schierata col 148° nelle posizioni del Bosco Lancia, mentre il 147° fin dal 22 combatte al Bosco Cappuccio [comandante il Col. Polver Gaetano], riportando qualche vantaggio territoriale. Ripresasi l’azione, la brigata fino al 2 novembre s’impegna in una lotta accanita nella quale i reparti gareggiano in eroismo. Le posizioni avversarie sono più volte conquistate e perdute data la tenace ed attiva reazione dei difensori, ma finiscono per cadere la maggior parte in possesso dei nostri che le rafforzano e le mantengono, catturando prigionieri, armi e materiali. Le perdite della brigata sono un indice sicuro della strenua lotta: 95 ufficiali e 3946 uomini di truppa. Il 7 novembre la Caltanissetta scende nei pressi di Versa per riposare e riordinarsi.

Le perdite del solo 147° Fanteria, fra il 22 ottobre ed il 6 novembre, nell’area di Bosco Cappuccio – Sella di San Martino del Carso – Q. 441 – Bosco Lancia furono:

Ufficiali: 15 morti, 12 feriti, 6 dispersi ; Truppa: 124 morti, 545 feriti, 730 dispersi.

Fra quelle perdite di orribili proporzioni e fra quei 124 morti e 545 feriti, va purtroppo annoverato anche lo zio Sante “morto nell’ospedaletto da campo n. 98 il 31 ottobre 1915”.
Nella casa dei Capitèni, così mi diceva mia madre, si è sempre tramandato che, alla notizia della perdita di Sintùla, la nonna, affranta dal dolore, ebbe quasi a morirne, tanto la gettò nello sconforto e nella disperazione il pensiero del figliolo caduto chissà dove,  per una guerra di cui non riusciva a darsi ragione.
Sante ebbe in un primo momento, a spese dei familiari, una bella ed ordinata tomba nel cimitero di Romans d’Isonzo.
La sua famiglia invece si spostò ancora. Da Portonovo di Medicina, poco più di un anno dopo, il 16 novembre del 1916, il nonno venne a stabilirsi nell’argentano, a pochi passi da Filo, alla Campagnona in terra di San Biagio. In quegli anni, nel cimitero sanbiagese fu eretto un elegante cippo a ricordo dei caduti di guerra. Le pareti laterali ospitarono le fotografie e i nomi, rispettivamente, dei Morti per Malattia, dei Dispersi e dei Caduti in Combattimento. Sante si trova ancora lì, presente, fra quest’ultimo gruppo.

Il cippo di san Biagio – Sante Toschi è il penultimo della colonna più a destra.


Durante il turbolento dopoguerra la nonna Angiùla andò in treno più volte fino a Romans d’Isonzo sulla tomba del figlio. Intorno al 1926, quando ormai la famiglia si era spostata a Filo, alla Casetta (dove mia madre conobbe giovanissima mio padre Guerriero), fu finalmente possibile trasferire la salma al cimitero di Filo. Qui Sintùla riposa ancora oggi, raggiunto negli anni ‘50 dagli amati genitori, morti serenamente in vecchiaia. Da loro, Sante ora non può staccarsi mai più.
Nel centenario dell’entrata in guerra dell’Italia e della morte dello zio Sante, il pensiero mio, dei nipoti e dei discendenti di Nunì e dell’Angiùla va perciò, non senza una punta di fierezza e di orgoglio, soprattutto a quel dolore, a quella vita stroncata, a quella bella gioventù straziata e perduta sul Carso, quando, fra grida, stenti e colpi di mitraglia, la morte falciò senza pietà, ai margini di un Bosco, alle pendici di un’altura come tante, chiamata Monte San Michele.

A fianco: mia nonna Angiùla (Angela Berti) in visita alla tomba del figlio Sante a Romans d’Isonzo, negli anni ’20 del ‘900 (dal mio album di famiglia).





[1] In piena guerra il poeta,  per un improvviso mutamento del paesaggio, trova uno spiraglio di evasione e di sogno. Bosco Cappuccio,  il colle che offre al poeta lo spunto ed il pendio di erba verde come il velluto, diventa una riposante poltrona. L’immagine porta il poeta lontano,  non più al Carso straziato dalla guerra, ma ad un caffè di Parigi dove  riposa alla luce di una lampada, una luce fioca  come quella della luna che imbianca Bosco Cappuccio. Il caffè più di una speranza per il futuro è un dolce ricordo del passato. (http://balbruno.altervista.org/index-1180.html). Il dipinto raffigurante Bosco Cappuccio è di Andrea Palermo da Padova.
[2] Per le notizie di Storia generale relative al primo conflitto mondiale,  si fa riferimento alla Grande Enciclopedia Agostini, vol. X, pp.146 ss.

Il Dopoguerra e la Ricerca del lavoro

$
0
0


Memorie dal  «Quaderno» (2)
di Giovanni Pulini – Introduzione di Agide Vandini


1945 - Agro filese. Desolazione, ordigni bellici e campagne incolte è quanto la guerra ha lasciato dietro di sé.

E’ una foto assai emblematica quella con cui ho scelto di introdurre il tema; la scelsi già come copertina per la mostra fotografica del 1996 di cui fui coordinatore[1]
Ci racconta, col realismo e la durezza che possono avere solo certe immagini, da dove dovettero ripartire i nostri padri all’indomani della Liberazione.
Cessato il crepitare delle armi, a Filo forse più che altrove, si contarono morti, rovine e distruzioni. Ed una economia che doveva ripartire dal nulla.
Si realizzava finalmente il grande sogno di Libertà, ma si annunciava una democrazia tutta da ricostruire, proprio come il nostro piccolo paese devastato.
I filesi, forti di un carattere caparbio e combattivo, cercarono di lasciarsi alle spalle gli orrori della guerra, rimboccandosi le maniche fin dai primissimi momenti. Gettarono ogni energia morale e materiale nella ricostruzione. Rifondarono Collettivi e Cooperative, liberarono i campi dalle mine, distribuirono quel poco che c’era in modo che nessuno facesse la fame ed ararono seminarono anche laddove i padroni latitavano. La vita poco a poco ripartì.
Non tutte le attese però furono soddisfatte, molti sogni svanirono.
Quanto ci racconta l’ex partigiano Giovanni, tratto dal suo Quaderno dei Ricordi ne è una fedele e preziosa testimonianza (Agide Vandini).

°°°

Le persone, quanto più avanzano gli anni, più sono smemorate.
 Spesso mi capita di non ricordare le cose banali del giorno precedente, ma non ho mai dimenticato il periodo che ho trascorso nel dopoguerra: mi sembra un vissuto di ieri e sono passati, invece, settanta anni.
 Ricordo gli amici di quel tempo legati ad innumerevoli episodi.
 Mi sembra di alleggerire il peso degli anni raccontando ciò che è sempre vivido nella mia mente.
 Alla fine della guerra, nella quale molti della mia generazione erano stati coinvolti, ci si aspettava una vita migliore, ma non fu così.
 Sono nato in un paese prettamente agricolo, Filo; gli abitanti erano per lo più braccianti, ma i terreni adatti al lavoro erano pochi poiché la maggior parte di essi erano minati o allagati quindi c’era scarsità di richiesta nel settore agricolo.
Le case, in buona parte distrutte, andavano ricostruite e si richiedevano muratori così che anch’io lavorai saltuariamente come manovale muratore.
Cercai anche di lavorare in proprio, ma, non avendo soldi da investire, non ebbi fortuna.
In quegli anni venne votata una Legge che permetteva agli ex combattenti di avere la precedenza nei concorsi di lavoro.
 A Ravenna si stava costruendo uno stabilimento petrolchimico di Stato, l’ANIC, e,  messo a conoscenza del fatto che si erano aperte le domande per un posto di lavoro, feci richiesta di un posto come autista. Dopo un breve periodo venni convocato per un test psicotecnico, e, superandolo, mi si disse di portare il libretto di lavoro, cosa che feci l’indomani stesso. Nell’occasione mi fu detto che entro pochi giorni sarei stato chiamato per iniziare il lavoro di autista. Cominciarono giorni di attesa ed invece della convocazione mi arrivò una busta con all’interno il mio libretto di lavoro accompagnato da una lettera nella quale mi si diceva che la mia assunzione era stata annullata per un cambio di programma dello Stabilimento.
Anni dopo seppi, da un ex funzionario dell’ANIC addetto alle assunzioni proprio di quel periodo, che la vera ragione della mia esclusione la si poteva trovare proprio nel mio libretto di lavoro dove, insieme alle generalità,  era messa in evidenza la mia  attività di ex partigiano combattente, quindi per l’Azienda potevo essere un probabile “seminatore di zizzania”! Uno stabilimento di Stato mi aveva chiuso le porte in faccia, nonostante la Legge me le avesse spalancate!.
 Agli inizi degli anni Cinquanta ero già sposato, avevo una figlia e, nonostante avessi bisogno di aiuto e lavoro, non mi rivolsi mai alle Associazioni degli ex combattenti, forse per orgoglio. Saltuariamente lavoravo nella grande “Cooperativa Terra e Lavoro” di Filo, insoddisfatto per la precarietà del lavoro e la mancanza di garanzie per il futuro.
Mia moglie ed io decidemmo di emigrare a Bologna: a quei tempi le distanze brevi diventavano grandi distanze. Ci stabilimmo in un condominio abitato da venti famiglie e per noi, che venivamo da un paese dove raramente nella stessa casa abitavano due famiglie, l’impatto psicologico fu forte.
A mio parere, Bologna era una città non abituata all’immigrazione,  la città non necessitava di lavoratori generici, ma di lavoratori specializzati: io ero un generico e non trovavo un’occupazione. Anche la Legge non mi aiutava molto in tal senso in quanto per avere diritto al lavoro bisognava essere residenti e per essere residenti era necessario dimostrare di avere un lavoro. Sapevo fare l’autista. 
Seppi che il “mercato” degli autisti si svolgeva nella vecchia Sala Borsa della città; lì un gran numero di autisti si radunavano in cerca di qualche ora d’ingaggio, ma poiché l’offerta superava la richiesta va da sé che la paga era al ribasso e “in nero”.
Mi fu suggerito di mettere un annuncio sul giornale locale come “autista patentato di lunga esperienza, tuttofare”. La risposta venne da un signore proprietario di un magazzino di carta. Fra le tante cose che mi elencò, nei miei compiti rientrava anche quello di accudire due cani barboncini facenti parte del nucleo familiare: avevo già capito che non era un posto di lavoro adatto al mio temperamento, inoltre, secondo il mio parere, il Commendatore, come voleva essere chiamato, non necessitava di un dipendente, ma di una persona da sottomettere a suo piacimento.
 Avevo rischiato la vita per difendere la dignità della persona e la libertà come uomo, difficilmente avrei sopportato la sottomissione!
 Quando il Commendatore aveva bisogno del mio operato, a voce alta, nei corridoi, chiedeva al  magazziniere, che chiamava Maresciallo, dove fosse “l’uomo”: un giorno, gli ricordai che il mio nome era Giovanni, ma il Commendatore continuò a chiamarmi “l’uomo”!
Una sera, poco prima della chiusura del magazzino, mi convocò,  mi disse di prendere l’automobile, recarmi dalla moglie e mettermi a disposizione della stessa: ciò non rientrava nei patti di lavoro, tanto meno fuori orario; la paga era settimanale  e nella busta trovai una cifra, oltre lo stipendio pattuito, che potrei definire solo una mancia. Commentai il fatto col magazziniere e mi spiegò che lo stesso trattamento era stato riservato ai miei predecessori: se mi fossi lagnato, come loro sarei stato licenziato!
 Avevo un gran bisogno di lavorare, ma non avrei mai potuto vivere a lungo una situazione di tale sottomissione. Il lavoro continuò per qualche mese, venivo ancora chiamato “l’uomo”, continuavo a fare orario extra.
 Finalmente un giorno, un bel giorno, trovai un’altra occupazione. Al commendatore dissi che mi licenziavo senza preavviso, ben sapendo che avrei dovuto rinunciare all’indennità di licenziamento; uscii dall’ufficio, e dal magazzino, soddisfatto nell’animo, mentre il Commendatore urlava come una bestia per l’affronto: non gli avevo permesso di decidere la sorte de “l’uomo”!
Giovanni Pulini, Maggio 2015


[1] Festa Unità Luglio 1996. «Filo 1945-1960: Gli anni della ricostruzione» (Coordinamento e testi guida: Agide Vandini, Servizio fotografico: Giovanni Montanari, Documentazione fotografica: Giovanni Principale, Carla Vandini, Foletti Bruno)

Bulow e gli Spinaroni

$
0
0


Memorie dal  «Quaderno» (3)
di Giovanni Pulini – Introduzione di Agide Vandini



«L'Isola degli Spinaroni - recita Wikipedia - è un'isoletta della Pialassa di Ravenna, nota per essere stata sede del “Terzo Lori”, VI Distaccamento della Brigata Partigiana Garibaldi, dal settembre al dicembre 1944. L’isolotto prende il nome dall’arbusto di “spinarone”, nome dialettale dell’olivello spinoso (Hippophae Rhamnoides), che fino agli anni ’60 lo ricopriva pressoché interamente.
Negli anni ’60, il definitivo imbrigliamento entro argini fino al mare del fiume Lamone (la cui foce si trova ora a nord di Marina Romea), che fino ad allora disperdeva le sue acque nella Piallassa, ha provocato profonde trasformazioni del territorio.
In particolare, la maggiore salinità delle acque ha determinato una drastica riduzione di molte specie vegetali ed animali, fra cui anche la quasi totale estinzione dell’olivello spinoso, del quale, nell’isola, resta oggi un unico esemplare».
A fianco si riportano le basilari informazioni necessarie alla visita. La storia dell’Isola e la descrizione della recente operazione di recupero della stessa sono ben raccontate e descritte in questo articolo:


 E’ un luogo che, per quanto mi riguarda, non potrò mai dissociare dai racconti affascinanti che ho avuto la fortuna di ascoltare per molti anni dalla viva voce di Gaetano Trombini, all’epoca il poco più che ventenne partigiano e comandante Tommy, mio mentore e guida in campo manageriale e professionale, uomo di grande ed esuberante personalità con cui ho condiviso un lungo e fecondo rapporto di lavoro. 


Fu un’esperienza la sua che, in particolare nelle lunghe ore di viaggio trascorse assieme, egli ha sempre descritto con dovizia di particolari, con autentica emozione e soprattutto ricordandone e sottolineandone ogni volta la grande esperienza umana, nonché la lezione ed insegnamento di vita. 
E’ perciò con vero piacere che pubblico il breve racconto che ci porta in quei luoghi e che Giovanni ci ha fatto ancora una volta l’onore di inviare al blog (Agide Vandini).


°°°

Già dai primi anni ’80 villeggiavo a Punta Marina Terme dove trascorrevo i mesi estivi in un piccolo appartamento.
 Spesso mi godevo l’aria fresca e profumata nel giardino del palazzo, seduto ad osservare gli uccellini che venivano a beccare briciole, gatti che cacciavano o si crogiolavano al sole, profumi dei fiori che sbocciavano e, proprio in una di quelle giornate, arrivò una coppia di romagnoli a villeggiare nello stesso edificio. Li osservavo mentre scaricavano i bagagli;  ad un certo punto si avvicinarono e, presentandosi, mi chiesero dove avrebbero potuto prendere in affitto l’ombrellone sulla spiaggia, non distante dall’alloggio. Fu così che conobbi Sergio e sua moglie.
 La frequentazione diventò assidua, sulla spiaggia e nel giardino comune. Inizialmente i nostri discorsi riguardavano argomenti “di routine”, nessuno dei due entrava nel personale finché fu inevitabile addentrarci nella politica. Avevo capito che Sergio era una persona colta, molto discreta e impegnata politicamente: faceva riferimento a suoi incarichi da Dirigente, ma senza mai addentrarsi in particolari, sembrava che si aspettasse da me l’ammissione ad un’appartenenza politica per andare oltre. Fino a che gli raccontai del mio trascorso di partigiano e i discorsi vennero da sé.
Sergio mi raccontò che qualche volta aveva fatto da guardia del corpo al Comandante “Bulow”, al secolo Arrigo Boldrini.  A quel tempo, erano gli anni Novanta, il Comandante viveva presso una Casa di Riposo a Marina Romea, gestita da Don Ugo, un prete molto conosciuto nel ravennate. Chiesi a Sergio se fosse stato possibile fargli una visita e Sergio acconsentì volentieri. Da parecchi anni non vedevo il Comandante e quando fui presentato gli dissi dove avevo svolto la mia attività di partigiano, accennando ai miei incarichi militari, ma capii che non avrebbe voluto parlare di questo. Chiudendo il discorso, mi disse: “tu hai operato in una zona che conosco bene dove il contributo della popolazione è stato eccellente, se non fosse stato così, molto probabilmente non saremmo qui a raccontarlo”. I discorsi continuarono su altri argomenti poi ci salutammo e fu l’ultima volta che vidi Boldrini.
 Sergio mi disse che l’ANPI di Ravenna aveva fatto costruire una barca, per circa una ventina di persone, con un fondo adatto alla navigazione in acque basse, da adibire ad uso turistico nella Valle della Pialassa; alla barca era stato dato il nome di “BULOW”, in omaggio a Boldrini. Grazie al suo interessamento ebbi la possibilità di partecipare ad una escursione su quella stessa barca: fu una giornata indimenticabile!
 La  Pialassa della Baiona è una laguna salmastra, situata nel Parco Naturale del Delta del Po, con specchi d’acqua poco profondi e canali dove si possono vedere specie faunistiche protette, stanziali e migratorie, come folaghe, aironi, anatre selvatiche, fenicotteri ed altro ancora, oltre a rappresentare un paesaggio naturalistico speciale.   La valle  è punteggiata di isolotti fra i quali  forse il più conosciuto è  l’isola degli Spinaroni dove, durante la Resistenza, un gruppo di antifascisti si riunì in clandestinità per dare vita al Distaccamento Partigiano “Terzo Lori” della  28a Brigata Garibaldi, comandata da “Bulow” e da dove lo stesso dette ordine di dare il via alla  nota “Battaglia delle Valli” .
 Durante la gita,  mi sedeva accanto una coppia di turisti tedeschi e uno di loro conosceva bene la nostra lingua. La signora che ci faceva da guida spiegava molto bene la peculiarità di questa incantevole valle e potemmo vedere anche un gruppo di piccoli anatroccoli che si avvicinavano alla barca senza essere minimamente impauriti dalla nostra presenza. Scendemmo all’Isola degli Spinaroni, così chiamata per la copiosa presenza di arbusti e dove ancora oggi sopravvive l’olivello spinoso, trovammo un gradevole servizio bar e, seduti sotto un pergolato, ascoltammo la nostra guida illustrarne la storia, indicandoci alle lungo le pareti i documenti dei personaggi che avevano partecipato alla Resistenza, molti di loro morti prima della fine della guerra. Ci fu spiegato, minuziosamente, l’importanza dell’esistenza del capanno in quel momento storico: molti dei presenti, compreso il tedesco, non seppero trattenere l’emozione e le lacrime.
 Ci imbarcammo nuovamente per il ritorno e visitammo parecchi isolotti dove i capanni conservavano ancora i segni della storia: vedemmo dove si cuoceva il pane per i partigiani e dove venivano svolti altri servizi durante la loro permanenza.
 Vedemmo, nella distesa della valle dove la natura regna ancora sovrana, isolotti ricoperti da canne palustri, altri, poco più grandi, ricoperti da arbusti di  tamerici verde argenteo. 
 Avvicinandoci al pontile per lo sbarco percorremmo un canale dove, lateralmente, erano situati capanni, costruiti su palafitte, con grandi bilancioni per la pesca, tuttora riparo per i pescatori.
 L’incontro con il Comandante Boldrini “Bulow” e l’escursione alla valle della Pialassa  resero  quell’estate di tanti anni fa un’estate indimenticabile che, ancora oggi, in vena di ricordi, ho piacere di raccontare.

Giovanni Pulini, Giugno 2015


Isola degli Spinaroni - Gaetano Trombini (Tommy) con gli occhiali scuri al centro della foto, mentre taglia il nastro il giorno dell’inaugurazione del nuovo capanno.

Tinèla e la partita delle banane

$
0
0


Un fàt e’ véra, in dialèt, cuntê da Orazio d’Pezzi
Note, traduzione e trascrizione (nella fonetica autoctona filese) di Agide Vandini


Coma tǒt quĕnt i sa, mĕ a a j ò žughê ae’ palòñ. Um piašéva un bël pô e, par dìla s-cèta am la cavéva nènc bèñ. Ènzi paréc’ i 'géva ch’a sìra bòn d žughê, ch'a j avéva dla clàs insoma, e par un pô a j ò cardù nẽca mĕ, ma pu am sö duvù arcrédar, com ch’a j ò ža cuntê a prupóšit ad Giacomino Bulgarelli[1].
An sö quènti partìd ch’épa žughê, bëli, brǒti, cun e’ sól, la piùva, e’ vént e nẽca la név; arcurdêli tǒti l’è impusébil, mǒ òna la m’è armasta int la mimoria coma ch’e’ fǒs aìr.
La partìda dal banàñ.
E’ manchéva tre partìd a la fĕñ de’ campiunêd, nǒñ a simi a mëza clasĕfica e a duvìmi andê a Vultêna ch’l'éra in tësta insèñ ae’ Sant’Albért.
Com ae’ sòlit as truvésum vérs a un’óra e mëž int e’ bar da Cianì. A m’arcùrd ch’a fašésum fadiga a fê i òng’. Talòia al duvésum andê a tù a ca’ e e’ fašè nẽca dal stôri. In quelca manìra a ‘rivésum a fê i òng’ e andésum a Vultêna.
E’ Vultêna, ció, l'avéva un squadròñ. E’ žughéva Gambi e’ purtìr, Lusa e Vavassori ch’i éra de’ Baràca Lùg in prëst, e pu Billy e Ghelfo (e’ marè dla Sandra, mi cumpagna d scôla al Médi) e e’ Rös.
Nǒñ as presentésum cun: Talòia, Trava, Uscarì, Pëcia, Pirìni, Crati, Ricco d Carlì, Tapper, Giöla, me, e Luigì d Bigiöla. S’a i guardì bèñ, una furmaziòñ che t'a ngn avrĕs dê un frènc[2].
L'éra un dè cun e’ sól e al nùval, e’ chèmp l'éra vérd e tušè d frès-c, i tifùš de’ Vultêna i éra in pì atèc a la ré tǒt intóran e  i m’pareva tĕnt;  i nòstar i éra pùc e mĕ am n'arcùrd sól òñ: Tino, che par nǒñ l’è pu Tinèla, ch’e’ dašéva la vóš a tǒt e e’ svarsléva che l'éra sicùr ch’arésum vìnt.
Int un àngul avšèñ a l'intrêda u i éra una dunina cun e’ carèt ch’la vindéva de’ ziž, di luĕñ, dal brustlìñ, dla miclézia dura e d’quèla mùrbia tǒta rutulêda, caramël, cócul, nušôl, bìbit e ‘tac a un trispulòt l'avéva un röz ad banàñ.
I tifùš de’ Vultêna is gudéva a tù in žìr Tinèla: «A vut scumétar, Tino, che incù a ciapì quàtar pàl?».
E’ fǒ acsè che Tinèla e’ ‘gè: «Par ogni gol ch’av fašèñ am mègn ‘na banana, e vuiétar a la paghì. E se a vinzèñ am pùrt a cà e’ röz dal banàñ, a sègna d’acôrd?».
I s mité tǒt a rìdar:« Um sa, Tino, che incù t staré alžìr, parchè a pirdarì, mènum, trì a žéro.
«Alóra a scumitèñ…» e’ dĕs Tinèla. E la scumĕsa l'andè.
Talòia u n’aveva putù šgagnê i su sǒlit dù-trì sachét ad brustlìñ e l'éra un pò istizì, donca e’ sreb stê difĕzil a fêi gôl. E’ ‘taca la partìda.
Döp a zènc minùt Lusa e’ tira ‘na puniziòñ da e’ lèmit: la pala la va a l’incroš mǒ Talòia u la šmanaza in corner.  Ròbi da n’crédi. E’ bel e’ fò che döp a quelc minùt a i lasésum tǒt a böca ‘vérta.
Crati um pasa e’ palòñ du trì métar addlà da la mitè chèmp, me cun la coda dl'òc’ a vìd Giöla che da sinĕstra e’ taja vérs ae’ zéntar, alora a fègh un bël taj rasoterra ad 30-40 métar e al mĕt in pôrta: tìr e gôl.
Tinèla e’ zighè: «Ac fàti röb! Ac fati röb! Um töca pu d magnêm la prĕma banana...»
L'éra un dè ch’a sìra sgnê bèñ, cum è difàti, döp un pô, sóra un palòñ lǒng ad Pirìni int e’ mëz a l'area di vultanìš a m'infil e cun un tòc ad clàs a fèg e livlǒz ae’ Rös, lǒ senza pinsêi sóra l'élza un bràz: «Rigore!» E’ diš l'arbitro, senza gnènc una prutèsta tènt ch’l'è nèt. Ad sòlit i rigùr u i tiréva Pëcia, o Nóce[3], mǒ ì avéva šmĕs parchè i n’avéva šbaglié dù o trì (Pëcia adiritura dù int 'na partìda sól). L'ùltum u l'avéva tiràt Giöla e u l'avéva šbagliê.
A capè sǒbit ch’um tuchéva a mĕ. A mitĕ e’ palòñ sǒ int e’ žëž e am parparè. Ghelfo l’andè da Gambi par dij indó ch’a l'arĕb tiràt. L'arbitro e’ fis-cè; quàtar pës e tìr int l'àngul a la sinĕstra de’ purtìr. Dù a žéro.
Tinèla us magnè un'êtra banana.
Mǒ, com ch’a v'ò det, ló i éra un squadròñ, difàti ‘prufitend d'un pastrǒc’ fra mĕ e Tapper, Vavassori u s’infilè int la nöstra diféša e da póc déntr a l'aréa e’ lasè partì un silùr dirèt a l'incróš. Talòia u i arivè mǒ la pala la šbatè int e’ pël e l'andè in pôrta. E’ prem temp e’ finè donca dù a òñ.
Döp avé dbù e’ tè chêld, prema d’arcminzê andésum pët a la ré indó ch’u i éra Tinèla tõt razê ch’l’andeva sǒ e žò: « Fati röb, fati röb, mǒ me al ‘géva: incù l’è la vôlta bóna ch’a vinzèñ a Vultêna…».
Intènt e’ temp e’ stašéva cambiend, u s'éra ‘rnuvlê e alzè nènc e’ vent, mǒ nǒñ an s n’in sìmi gnènc adé tènt ch’a simi ingasé. E’ ‘taca e’ šgond temp e e’ Vultêna l'ataca a tot andê;  nòñ a n sèñ piò bǒñ d pasê la mitè chemp, nènc parchè a sèñ contra vent.
 Par furtona che Talòia u li ciapéva tóti. Döp a zirca vint minùt, parò, sǒ int un corner, Billy ae’ vól cun ‘na mëza arvarsêda, e’ fa un gôl da campiòñ; Talòia u n s'mov gnènc. Dù a dù.
I tifùš de’ Vultêna i ziga: «Fašìan mò êtar dù ch'i è cǒt!».
Tinèla e’ burböta sèmpar  sǒ e žò e i Vultaniš il tô in žìr: «Ét vĕst Tino, t’é finì d magnê dal banàñ…».
Invézi, i n’avéva fat i cùnt cun mĕ: la pala la žira da Tapper a Giöla ch’um véd lébar a sinĕstra, mĕ a ‘rìv int la pala in velozitê, a schért du difensùr e quènd che e’ purtìr um vĕn d’incóntar, a la pës a Luigì ch’l'è queši impët ae’ rigór. E’ tìr d Luigì l'è acsè lent ch’e’ fa fadiga a ‘rivê in pôrta: e’ toca e’ pël e pu la pala la s’aférma sǒ int la riga. Par furtona che e’ prem a ‘rivê l'è Ricco ch’u la toca e u la fa ruzlê déntar. Trì a Du.
Tinèla e’ cǒr sòbit a magnês un'êtra banana.
E’ Vultêna e’ va in bàmbula e nǒñ a zarchèñ d'aprufitèñ, la pala la pasa da Giöla a mĕ ch’a vëg int e’ fònd e da sinĕstra a la pës rasoterra a Ricco. Lǒ, ch’l’è a mènc ad zìnc métar da la pôrta, e’ tira, mǒ la pala la  s’aférma a dìš zantĕmatar da la riga. L'ariva un difensór che spaza vìa. Un quèl mai vest. «L’è stê e’ vent ch’l'à farmê e’ tir…» e’ dirà Ricco. A mĕ döp a tènt temp um pê incóra impusèbil che che palòñ un seia briša andê in pôrta.
E’ parècul apena pasè, parò, l'ardistè e’ Vultêna che a sët-öt minùt da la fĕñ e’ paržè cun un tiràz in mes-cia; a n  m’arcùrd gnènc chi ch’fašè gôl.
A partida finida a simi tǒt cuntìnt, un po’ mènc forsi qui d Vultêna.
E’ piǒ cuntent ad sicùr l'éra Tinèla, ch’u s'éra magnê trè banàñ e divartì la faza.
A tót qui ch’i m cgnǒs a voj dìi che l'è una stôria véra in tǒt i particulér, nẽca se, döp a tĕnt èñ, la pê ‘na fôla.                  

Tinèla in maglia rossoblù, caplìna e occhiali scuri, a Filo, davanti al Bar che fu di Cianì, in una foto assai recente
 scattata da Egidio Checcoli (2012)

Come tutti sanno, io ho giocato a pallone. Mi piaceva moltissimo, e per dirla tutta, me la cavavo assai bene. Anzi, in parecchi dicevano che ero proprio bravo, che avevo classe insomma, e per un po’ ci ho creduto anch’io, ma poi ho dovuto ricredermi, come già ho raccontato a proposito di Giacomino Bulgarelli.
Non so quante partite abbia giocato, belle, brutte, col sole e con la pioggia, col vento e con la neve; ricordarle tutte è impossibile, ma una m’è rimasta nella memoria quasi fosse disputata ieri.
La partita delle banane.
Mancavano tre partite a fine campionato, noi eravamo a metà classifica e dovevamo andare a Voltana, in testa alla pari col Sant’Alberto.
Come al solito ci trovammo verso l’una e mezza del pomeriggio nel bar di Cianì. Ricordo che facemmo fatica a trovarci in undici. Talòia dovemmo andare a prenderlo da casa e fece anche un po’ di storie. In qualche modo andammo.
Il Voltana aveva uno squadrone. Giocava Gambi in porta e poi Lusa e Vavassori che erano in prestito dal Baracca oltre a Billy e Ghelfo (marito di una mia compagna di scuola alle Medie) e il Rosso.
Noi ci presentammo con: Talòia, Trava, Uscarì, Pëcia, Pirìni, Crati, Ricco d Carlì, Appio, Giöla, me, e Luigì d Bigiöla. A guardarci bene una formazione cui nessuno avrebbe dato una lira.
Era una giornata di sole e nuvole, il campo era ben rasato, i tifosi del Voltana molto numerosi coprivano quasi l’intera recinzione; i nostri erano pochi e me ne ricordo appena uno: Tinèla, che borbottava e gridava al mondo intero che era strasicuro che avremmo vinto.
In un angolo vicino all’entrata stava una donnina col carretto che vendeva ceci, lupini, brustoline, liquirizia dura e morbida, caramelle, noci, nocciole, bibite e, attaccate ad un trespolo aveva un caspo di banane.
I tifosi voltanesi punzecchiavano Tinèla: «Vuoi scommettere che oggi prendete quattro gnocchi?»
Fu così che lui stabilì: «Ogni gol che facciamo mi mangio una banana e voi la pagate. E se vinciamo noi, mi porto a casa tutto il caspo, siamo d’accordo?»
Ci fu una risata generale: « Mi sa, Tino, che oggi starai leggero, perché perderete almeno tre a zero».
«Allora scommettiamo…» Disse Tinèla, e scommessa fu.
Talòia era teso: non aveva avuto il tempo di smangiucchiare le solite bustine di semi di zucca. Sarebbe stato difficile fargli gol. Comincia la partita.
Dopo cinque minuti Lusa tira una punizione dal limite : la palla è diretta all’incrocio, ma Talòia la devia in corner con una parata incredibile. Qualche minuto dopo, poi, lasciammo tutti a bocca aperta.
Crati mi passa un pallone un paio di metri oltre la metà campo, con la coda dell’occhio vedo Giöla che taglia da sinistra al centro, gli servo un taglio rasoterra da 30-40 metri che lo mette in porta: tiro e gol.
Tinèla gridò: «Che meraviglia! Che robe! Mi tocca poi di mangiare la prima banana…»
Era un giorno in cui mi sentivo in forma, e infatti, dopo un po’, su di una palla lunga di Pirìni, m’infilo nell’area voltanese, salto il Rosso con  una palombella e questi, d’istinto, alza il braccio: «Rigore!» indica l’arbitro, senza proteste tanto appare netto. Di solito i rigori li tirava Pëcia, oppure Nóce, ma avevano smesso dopo averne sbagliati due o tre (Pëcia ne sbagliò due in una partita sola). L’ultimo l’aveva tirato Giöla e l’aveva sbagliato.
Capìi subito che toccava a me. Misi il pallone sul dischetto e mi preparai. Ghelfo andò da Gambi a dirgli dove l’avrei tirato. L’arbitro fischiò, quattro passi e tiro nell’angolo a sinistra del portiere. Due a zero.
Tinèla si mangiò un’altra banana.
Ma, come ho detto prima, loro avevano uno squadrone, infatti approfittando di un pasticcio fra me e Tapper, Vavassori infilò la nostra difesa e giunto in area tirò un siluro all’incrocio. Talòia ci arrivò, ma la palla sbatté sul palo e andò in porta. Il primo tempo finì dunque due a uno.
Bevuto il tè caldo ci avvicinammo alla rete nel punto dove stava Tinèla che, su di giri, andava su e giù per il prato: «Che robe, che robe. Ma io lo dicevo: oggi è la volta buona che vinciamo a Voltana…»
Intanto il tempo stava cambiando, il cielo era coperto e s’era alzato anche il vento, ma noi non ce n’eravamo accorti tanto eravamo gasati. Si ricomincia e il Voltana attacca a tutto spiano; noi, controvento, non passiamo più la metà campo.
Per fortuna Talòia le prendeva tutte. Dopo una ventina di minuti, però, su un corner Billy, in semirovesciata al volo fa un gol stupendo; Talòia non si muove neppure. Due a due.
I tifosi del Voltana esultano: « Fategliene altri due che son cotti!»
Tinèla borbotta su e giù e i voltanesi lo prendono in giro:  «Hai visto? Hai finito di mangiar banane!»
Ma non avevano fatto i conti con me: la palla passa da Tapper a Giöla che mi vede libero sulla sinistra, io arrivo sulla palla in velocità, dribblo due difensori e quando esce il portiere servo Luigì all’altezza del rigore. Il suo tiro è debolissimo, fa fatica a giungere in porta: tocca il palo e la palla si arresta sulla riga. Per nostra fortuna il primo ad arrivare è Ricco che la fa ruzzolare in porta. Tre a due.
Tinèla corre subito a mangiarsi un’altra banana.
Il Voltana va in bambola e noi cerchiamo di approfittarne, la palla passa da Giöla a me che mi spingo sul fondo e da sinistra l’appoggio rasoterra a Ricco. Lui, che è a meno di cinque metri dalla porta, tira, ma la palla si ferma a dieci centimetri dalla riga. Giunge un difensore che spazza via. Una cosa mai vista. «E’ stato il vento a fermare il tiro…» dirà Ricco. A me, dopo tanti anni, pare ancora impossibile che quel pallone non sia andato in rete.
Il pericolo corso tuttavia svegliò il Voltana che a sette-otto minuti dalla fine pareggiò con un tiraccio in mischia; non ricordo neppure chi fece gol.
Terminata la partita eravamo tutti contenti, forse un po’ meno quelli di Voltana.
Il più contento di sicuro era Tinèla che s’era mangiato ben tre banane e divertito come non mai.
Ai miei conoscenti voglio dire che questa storia è vera in tutti i particolari, anche se, dopo tanti anni, sembra una favola.



Orazio Pezzi (2014),
dimenticate le prodezze calcistiche del tempo che fu
si cimenta nel canto fra Agide e Lara.



[1] Si veda in questo stesso blog la testimonianza di Orazio Pezzi «Un Signor Fuoriclasse» dedicata al grande campione in:  http://filese.blogspot.it/2009/02/ciao-bulgaro.html
[2]Talòia: Giorgio Minguzzi; Trava: Silvano Brusi; Uscarì: Oscar Pezzi; Pëcia: Giuliano Leoni; Pirìni: Ido Montanari; Crati: Mario Sacrato; Ricco d Carlì: Enrico Romani; Tapper: Appio Venieri; Giöla: Luciano Ferrucci.
[3]Nóce: Cavallini Maurizio.

Un allegro Ferragosto

$
0
0


Memorie dal  «Quaderno» (4)
di Giovanni Pulini





 Mi piace conservare certi dettagli del mio passato; non ho la pretesa di pensare che siano ricordi speciali della mia generazione, ma provo il compiacimento di poterli raccontare a tanti anni di distanza.
 Nel palazzo dove vivo ho un piccolo locale al piano terreno, che io chiamo L’Atelier,dove c’è un po’ di tutto, ci passo le giornate a stendere colori su tele, ascolto musica, scrivo qualche ricordo e alle pareti ci sono mensole sulle quali tanti oggetti mi ricordano il passato. Un giorno, che non avevo voglia di creare, cominciai a rovistare nei cassetti, non alla ricerca di qualcosa in particolare, ma frugavo in mezzo alle mie cose con curiosità. Trovai una busta che conteneva un foglio: era il conto di un pranzo che si era tenuto con amici, a metà degli anni Ottanta.
Quell’anno avevo scelto di villeggiare in una palazzina, a Punta Marina Terme, di proprietà della signora Wanda Cervellati. L’edificio disponeva di una decina di appartamenti arredati, tutti adibiti a casa per le vacanze.
 Dopo qualche giorno dal mio arrivo giunsero cinque famiglie provenienti da città lombarde;  guardando i loro bagagli pensavo fra me e me di aver sbagliato luogo di villeggiatura in quanto i nuovi arrivati mi apparivano di ceto molto lontano dal mio: se così fosse stato, probabilmente avrei passato una villeggiatura non troppo felice, ma mi riservai qualche giorno prima di trarre conclusioni, forse sbagliate.
 La palazzina aveva uno spiazzo, che potrei definire un parco, dove grandi pini ombreggiavano tutta l’area. Al limite dello spiazzo la proprietaria si era fatta costruire un capanno ove si ritirava durante l’estate per lasciare spazio agli ospiti. Mentre facevo le mie silenziose valutazioni, scesero nel parco alcune persone dei nuovi arrivati e subito la Cervellati uscì dalla casetta dicendo, in una lingua che assomigliava più al romagnolo che all’italiano, che il barbecue, il parco e i tavoli erano a disposizione di chi lo avesse desiderato. L’arredamento degli spazi comuni non era di grande qualità o raffinatezza, ma la padrona di casa era una donna di grande generosità, quella ben nota delle azdore romagnole. Il nuovo gruppo di villeggianti, che nel frattempo si era infoltito, rimase colpito favorevolmente dalla spontaneità e disponibilità di Wanda.
Ai primi approcci capii che avevo sbagliato le mie valutazioni: erano persone che avevano bisogno di vivere una vacanza molto semplice. Già la prima sera mangiarono sotto i pini con grande allegria, poi mi chiamarono per unirmi a loro per un caffè al bar vicino. Capii che erano dei piccoli imprenditori e che avevano scelto Punta Marina, e il suo contesto, per trascorrere una vacanza in piena libertà.
 La settimana successiva arrivarono da Modena anche Maurizio, la moglie Carla e la loro bimba di una decina d’anni, Angela. Maurizio era un ragazzone biondo, aveva un viso solare, corporatura robusta e carattere incline ai piaceri della tavola. Si occupava di programmazione di computer, a quei tempi mestiere molto apprezzato, ed aveva frequentato una scuola negli Stati Uniti.
 Dopo qualche giorno l’atmosfera era molto confidenziale fra tutti, compresa la Cervellati. Il barbecue era sempre in funzione, si giocava a carte fino a notte fonda e Maurizio, steso nell’amaca, suonava brani caraibici con la sua chitarra che evocava lontani mari e paesi.
 Punta Marina Terme era poco più di un villaggio di pescatori, le ordinatissime case ad un piano erano immerse in una pineta spettacolare dove, al mattino presto, predominava l’odore della resina. Non c’era un locale per ballare e nemmeno un cinema. La musica insolita di Maurizio si avvertiva in lontananza e molte persone, che la sera passeggiavano, ne venivano attratte tanto da formare capannelli di curiosi davanti al nostro parco; tutto il paese ne parlava. Eravamo di colpo diventati famosi. La sera andavamo in gruppo al bar per il caffè ed il barista ci liberava il banco; tutti ci salutavano, nessuno conosceva i nostri nomi, eravamo semplicemente “i clienti della Cervellati”.
In questa atmosfera goliardica, decidemmo, tutti d’accordo, di organizzare un pranzo comune per il giorno di Ferragosto. La Wanda si mise a disposizione e si stabilì il menu che ovviamente includeva cappelletti fatti sul posto assieme alle donne della comunità. Ordinammo al ristorante vitello arrosto e patate fritte per trenta persone, tanti erano i commensali, mentre il fruttivendolo ci avrebbe preparato e portato a domicilio, data l’occasione speciale, monoporzioni di frutta, vino ed acqua.
Il 15 agosto legammo delle fettucce colorate ai rami degli alberi e bandierine multicolori all’inferriata prospicente la strada, poi apparecchiammo i tavoli all’ombra dei pini: avevamo creato un arredo che nel paese non si era mai visto! La festa finì verso sera e ricevemmo tanti complimenti da tutti. Della festa se ne parlò per un pezzo, nel paese. L’anno successivo tornai e tanti mi chiesero se l’avessimo rifatta. La Cervellati mi disse però che le persone dell’anno precedente, per impegni di lavoro, non sarebbero tornate. Non le vidi più per molto tempo.
 Un paio di anni fa, per le strade di Punta Marina Terme fui incuriosito da una signora che sosteneva col braccio un uomo al suo fianco; entrambi mi ricordavano qualcosa. Era Carla e l’uomo era Maurizio che però non aveva più le sembianze di un tempo. Mi riconobbero subito e ci abbracciammo con grande commozione. La moglie mi spiegò brevemente che l’uomo era ridotto in quello stato a causa di un ictus che lo aveva colpito due anni prima. Erano tornati a villeggiare a Punta Marina e passavano intere giornate nel solarium dell’albergo. Quel giorno Carla  aveva accompagnato  il marito dal barbiere.
Furono attimi di piacevoli amarcord, per loro e per me che, per quasi trenta anni, sono sempre ritornato a villeggiare in quella località, portando nel cuore il ricordo di quella allegra, bellissima ed irripetibile estate.

                                                                                                   Giovanni Pulini, Luglio  2015

Storia di due padroni al tempo di guerra

$
0
0


Gli «Amarcord» di un partigiano filese (III)
di Giovanni Pulini
[Edizione e Note a cura di Agide Vandini]


La casata dei Tamba
A Filo d’Argenta, mio paese natale, la famiglia Tamba era proprietaria di un vasto territorio, in parte lavorato in compartecipazione con i braccianti del paese ed in parte lavorato a mezzadria.
Tamba era residente a Lugo di Ravenna e a Filo possedeva la villa che affacciava sul «campicello», un prato oggi Piazza Agida Cavalli. Il palazzo era recintato da un possente muro dietro al quale c’era un piccolo parco con alberi giganteschi.
Durante l’estate, quando i Tamba erano in villa, la servitù faceva le pulizie tenendo le finestre aperte ed una radio, l’unica nel paese e specchio della loro ricchezza, trasmetteva musica ininterrottamente: nel periodo fascista la cronaca era proibita ed i programmi culturali erano inesistenti.
Noi ragazzi, sdraiati sul prato della piazza, godevamo con grande piacere questi momenti gioiosi e anche molte persone adulte si radunavano nello spiazzo per lo stesso motivo.
A poca distanza dalla nostra abitazione c’era una fornace di proprietà dei Tamba e vi si fabbricavano mattoni fatti a mano, ricavandone un prodotto di pessima qualità. Nella fornace mio padre aveva mansioni di maltarolo: impastava la terra, un lavoro da bestia, senza un orario prefissato. La paga la stabiliva il padrone. Così dunque nacque il rapporto fra la mia famiglia ed i Tamba.
Un giorno il patriarca di quella famiglia signorile morì, i tre figli ereditarono e si divisero il patrimonio, la villa di Filo ed una cospicua quantità di terreno, che si estendeva fino al centro urbano, furono ereditati da Antonio.

Tamba Diotallevio
Nella foto anni ‘20 la Via Chiesa nel centro di Filo prima delle distruzioni belliche [ora tratto di Via Oca-Pisana]. La Villa Tamba è l’edificio più a destra nel punto ove oggi sorgono le Scuole Elementari., il fronte della residenza Tamba è delimitato dalla vistosa recinzione. Si notino la vecchia chiesa con l’imponente e perduto campanile abbattuti ad inizio anni ’30. Fra essi e la Villa Tamba, ove oggi sta il giardino dell’Asilo Parrocchiale abbandonato, le «scuole nuove» in faccia a vista, un edificio scolastico complementare alle cosiddette «scuole vecchie» che, con la ricostruzione del dopoguerra, lasciarono il posto alla Casa del Popolo.

Il terreno era molto fertile, c’erano filari di vite in piena produzione; alcuni di essi, in compartecipazione, erano stati dati alla mia famiglia e da questi si traeva il vino necessario al fabbisogno. In mezzo ai filari c’erano delle viti che producevano un’uva che maturava  a metà agosto, in concomitanza con l’Assunzione della Beata Vergine, e per ciò noi chiamavamo questo frutto “uva della Madonna”.
 A casa nostra l’uva si mangiava col pane, tanto da diventare il companatico.
Un giorno, verso sera, una delle mie sorelle mi disse di andare con lei per raccogliere una sporta d’uva che sarebbe servita per la nostra cena. Mi caricò sul cannone della  bicicletta e andammo. Lasciammo il nostro mezzo ad un centinaio di metri dalla vite, raccogliemmo l’uva necessaria e tornammo sui nostri passi, ma lì trovammo anche il fattore che ci aspettava e che ci strappò la borsa dalle mani dicendo che l’avrebbe portata al suo padrone. Mia sorella ed io tornammo a casa pieni di vergogna per l’accaduto. Dopo qualche minuto arrivò il maggiordomo dei Tamba e disse a mio padre di seguirlo che il padrone doveva parlargli. Negli anni non ho mai dimenticato la testa bassa, segno di grande umiliazione interiore, con cui mio padre rientrò in casa, senza commenti, senza parole; tutto questo per una sporta d’uva.

La sparatoria di Villa Tamba e l’eccidio di Filo
Allo scoppio della guerra i Tamba si trasferirono in via permanente nella villa di Filo che fu teatro, ai primi di settembre, di un episodio  mai chiarito fino in fondo, oscuro come tanti avvenimenti di quel periodo che non si conosceranno mai del tutto, poiché la spietatezza della guerra ha portato via molti testimoni.
Il fatto tragico lo esporrò così come mi fu raccontato, scusandomi per eventuali ed involontarie imprecisioni. Una sera ai primi di settembre del 1944 un gruppo di quattro persone bussarono alla villa dei Tamba intimando, in nome della Resistenza, di consegnare nelle loro mani Lire Centomila, somma da destinarsi al mantenimento dei combattenti partigiani.
Tamba rispose che non disponeva, in quel momento, di simile somma accordandosi per la sera seguente. La sera del giorno stabilito, i quattro bussarono alla porta, si trovarono di fronte un Maresciallo tedesco: ne seguì una sparatoria ed il militare germanico fu ucciso[1].
I presenti all’Osteria, a poca distanza da casa Tamba, da cui si presume provenisse il gruppo armato, al rumore degli spari, rincasarono immediatamente, il barista chiuse l’esercizio e si ritirò nel suo alloggio sopra il locale. La reazione tedesca fu però immediata. Chiamarono l’oste e si fecero condurre fino alle case dei clienti presenti al momento della sparatoria. Dentro al bar rinchiusero una quarantina di persone che il giorno successivo furono trasferite ad Argenta. Il Federale indicò chi doveva pagare con la vita questa barbara esecuzione. Durante il ritorno, a quattro chilometri dall’incrocio di Filo, cinque di questi furono fucilati ed altri cinque furono ammazzati nel centro del paese, a pochi passi dal luogo dell’accaduto.


In questa foto, forse dei primi anni ’40, il passeggio domenicale lungo la Via Provinciale [oggi Via 8 settembre 1944] nel centro di Filo. La foto è stata scattata da un terrazzo adiacente l’Osteria, poi Bar Centrale [oggi Bar Giada]. Nello scorcio di edificio più a sinistra il caseggiato Barabani con l’abitazione di Ivo Vandini, seguono le «scuole vecchie» poi danneggiate dai bombardamenti e quindi abbattute [oggi Casa del Popolo]. Oltre l’incrocio con la Via Chiesa e la strada per Bando, la Cà dla Nuziadina. 

Dei Tamba poi si persero le tracce, nella loro villa si insediò un Comando tedesco, fino a che fu bombardata e distrutta nell’aprile del ‘45. Terminati gli scontri fra eserciti contrapposti, le armi tacquero e si contarono i morti, ai quali si diede pietosa sepoltura.

Filo, 14 aprile 1945, giorno della Liberazione. Come si presentava la Via Chiesa: dov’erano le scuole supplementari e Villa Tamba, si scorgono solo macerie
In quei giorni si dava però anche sfogo a vent’anni di repressione. La gente del paese, suo malgrado, era abituata a vedere morti, scoprire cadaveri e fra questi macabri rinvenimenti fu trovato, nel greto di un canale, il corpo, completamente nudo,  di uno dei protagonisti - così si disse -  dei fatti di villa Tamba[2]. Alla notizia del ritrovamento nessuno si meravigliò, ma quei fatti rimasero per molti versi un enigma e mai si seppe chi li avesse autorizzati. Questo dà l’idea di quanto poco contasse la vita.
Col tempo si seppe che Tamba dirigeva una fazenda nella pampa argentina.
Dopo qualche anno Tamba tornò a Filo, si stabilì in località Fiorana e trasformò la casa colonica di sua proprietà in una casa di stile spagnolo, tanto era stato influenzato dalla sua permanenza in Argentina.
Passarono gli anni ed io mi trasferii a Bologna dove facevo il taxista. Un giorno risposi ad una chiamata telefonica e, recatomi all’indirizzo, mi trovai davanti il signor Tamba. Strada facendo gli dissi di conoscerlo e di essere il figlio di quel Zavateñ che aveva conosciuto tanti anni prima.
Arrivammo a destinazione e scesi dall’auto per salutarlo e dalla sua espressione capii che il nostro incontro gli aveva fatto piacere: abbozzò un sorriso come quando si incontra un parente non rivisto per tanto tempo. Tamba disse che si ricordava della nostra famiglia e di quando lavoravamo nella sua proprietà, chiese di mio padre e si commosse a tal punto che le lacrime gli scendevano lungo il viso.
Mi raccontò della sua odissea del dopoguerra, tanti particolari di accadimenti suoi e della sua famiglia. Quell’uomo aveva bisogno di sfogarsi con una persona che lo capisse e secondo lui io ero la persona giusta. Anch’io mi commossi ascoltandolo e mi sentii orgoglioso nel constatare che queste confidenze mi venivano fatte da un uomo che aveva una cultura ed una classe ben diversa dalla mia.
Il motivo per cui ho raccontato e scritto questa storia è dato dal ricordo frequente di quell’incontro e penso che il Signor Tamba non raccontasse a chiunque avesse voglia o tempo di ascoltarlo, ciò che ha raccontato a me.

Guiélum Rosetti
Rosetti Guglielmo, un personaggio che ha lasciato il segno nella mia generazione, era un romagnolo di Ravenna, conosciuto in città col soprannome di famiglia, i Fabroñ, mentre nel mio paese, Filo, tutti lo conoscevano come Guiélum ed era il proprietario della grande Azienda denominata Campeggia, con sede nel fondo agricolo che ancora oggi porta quel nome.
La proprietà era di dimensioni enormi e confinava col il centro urbano di Filo. Guiélum dirigeva personalmente l’Azienda, di questa una parte era a mezzadria e una parte a compartecipazione. Ogni contadino aveva la disponibilità di un pozzo Norton per l’abbeveraggio degli animali e per l’uso domestico. Io abitavo in un piccolo borgo, abitato da dodici famiglie, e l’approvvigionamento dell’acqua distava tre chilometri.
Guiélum andava in giro con una bicicletta priva di qualunque accessorio, vestiva con indumenti logori e rattoppati; durante l’inverno calzava zoccoli, sempre infangati, e indossava una mantella grigioverde di tipo militare: chi lo avesse incontrato  senza conoscerlo avrebbe pensato che era un poveraccio. Non so quale titolo di studio avesse, ma si sapeva che durante la Grande Guerra era Colonnello di Cavalleria.
Tutti noi vedemmo i primi trattori, le seminatrici meccaniche e quant’altro di moderno sopravveniva a Filo, proprio nella Campeggia: Guiélum anticipava i tempi dello sviluppo agricolo di almeno dieci anni. Lui non dava confidenza a nessuno, nel paese non aveva amici, ma so con certezza che era un uomo generoso: ai braccianti con risorse limitate che vivevano nei pressi dei suoi terreni non ha mai fatto mancare il necessario.
Un giorno il Maresciallo dei Carabinieri lo fermò in malo modo chiedendogli i documenti, dove abitasse e dove lavorasse, Guiélumrispose che era il padrone della Campeggia, che era un Colonnello della Cavalleria in pensione e gli snocciolò le generalità. Il Maresciallo, visibilmente imbarazzato, si mise sull’attenti, un episodio, questo, che ebbe come testimoni due operai che stavano facendo manutenzione in strada.
Mio padre prendeva in affitto l’argine del fiume Reno, al limitare del fondo Campeggia, e tutta la mia famiglia, durante i mesi estivi lo percorreva per la fienagione, sicché conoscevamo bene Guiélum.


Filo di Alfonsine, argini del Reno, anni ‘50. Lavoratori impegnati nella fienagione

Un giorno la storia della Campeggia e dell’Italia cambiò. La dichiarazione di guerra travolse i bei propositi di Guiélum. Dopo tre anni di guerra l’Italia, con qualche vittoria e molte sconfitte, tentò di uscire dal massacro lasciando un Esercito allo sbando, ma l’armistizio dell’8 settembre del ‘43 non fermò lo scempio, lo peggiorò, consegnando la nazione a Tedeschi e Fascisti che sterminarono parte della popolazione italiana.
Ai primi di marzo del 1945 mi trovavo a Ravenna, già liberata; nella Piazza era stato sistemato un cartellone con la planimetria dell’Emilia Romagna che veniva aggiornato a seconda degli spostamenti del fronte. Un giorno mentre osservavo il cartellone vidi Guiélum che stava facendo la stessa cosa; mi avvicinai e gli dissi: «Come va signor Rosetti?».
Vidi dipingersi il terrore sul suo volto: io ero vestito da partigiano ed in quel periodo quella divisa creava tensione, soprattutto quando ci si avvicinava ad un civile. In questo caso era anche un civile proprietario di grandi capitali. Non lo lasciai riflettere ed aggiunsi che ero di Filo, figlio di Zavateñ, soprannome di mio padre, come si usa nei nostri paesi.
Guiélum  mi chiese da quanto tempo mancassi dal paese e se avessi notizie dei suoi contadini. Gli raccontai della fucilazione di dieci civili da parte tedesca, nomi e cognomi, Guiélum li conosceva tutti.
Si era fatta l’ora di pranzo e Guiélum volle a tutti i costi portarmi a casa sua. Abitava in una grande casa fuori città e la raggiungemmo a bordo di un calesse trainato da un cavallo pezzato; la gente osservava il nostro passaggio con stupore, non capivo se guardavano il cavallo o la strana coppia che formavamo.
A me pareva sussurrassero “un partigiano vicino ad un borghese, che strano!”. Giunti a casa sua, non appena la famiglia seppe che ero di Filo, mi bersagliò di domande, ma io non avevo le risposte che si attendevano. Ci mettemmo seduti a tavola dove fu servito un brodo profumatissimo con tagliolini, mai gustato prima, né dopo. Era una famiglia gioviale, tutti parlavano il dialetto, ed io mi sentivo a mio agio. Quando finimmo il pranzo Guiélumpropose di portarmi in città con il calesse, e così fu.
Io ero acquartierato alla Caserma di Cavalleria e, quando arrivammo, scese anche Guiélum che mi porse la mano e mi diede cinquanta Lire. Mi disse di tenere quei soldi perché avrebbero potuto servirmi.
Fu l’ultima volta che lo vidi.
Quando la guerra terminò, nell’Azienda filese si dovette procedere alla bonifica delle mine e questa lasciò una scia sanguinosa di morti, compresi donne e bambini: motivo per cui i Rosetti vendettero la Campeggia. Nonostante lo sviluppo dell’agricoltura che ci fu in seguito, per molto tempo si continuò a parlare in paese della loro azienda come modello di riferimento e modernità.

(III – continua)


[1] Si veda una più completa ricostruzione dell’intera vicenda, del suo contesto e dei suoi lati oscuri, basata sulle testimonianze ritenute più attendibili in questo stesso blog: http://filese.blogspot.it/2014/02/filo-1944-leccidio-dei-dieci-ostaggi_11.html [Filo 1944 – L’eccidio dei dieci ostaggi...].
[2] Si trattava di Piovani Virgilio, trovato morto il 26 maggio 1945.

Mario Babini ed Antonio Meluschi («Il Dottore»)

$
0
0


Gli «Amarcord» di un partigiano filese (IV)
di Giovanni Pulini
[Edizione e Note a cura di Agide Vandini]


Il mio ricordo di Mario Babini
Ero poco più di un ragazzo quando un mio compagno, che come me aveva interrotto la scuola per imparare dallo zio il mestiere di falegname, mi chiese di andare a trovarlo sul luogo del lavoro. Lo zio, falegname già affermato, aveva un piccolo capannone, vicino all’abitazione, utilizzato come laboratorio: il mio amico lavorava lì. Nell’officina una radio sempre accesa veniva ascoltata da tutti, occasionali frequentatori e amici dello zio. Un giorno ci andai e trovai il mio compagno con lo zio che stavano lavorando su di un banco alla presenza di tre persone. Queste stavano accanto ad una stufetta addossata alla parete; lungo il muro c’erano alcune mensole e sopra di esse la radio accesa. Con una certa animazione i presenti commentavano negativamente le notizie che stavano ascoltando. Appresi proprio in quel luogo e in quella occasione le prime lezioni di antifascismo; se ben ricordo correva l’anno 1939, ed erano i mesi in cui la Germania occupava la Cecoslovacchia e minacciava la Polonia.
Gli argomenti di discussione non mancavano ed io ascoltavo con grande attenzione: era un linguaggio che mi appassionava. Si parlava della guerra di Spagna che stava per concludersi lasciando una scia di morti tale da non potersi neppure quantificare: era stata una guerra fratricida.
Ogni giorno, quando gli impegni di lavoro mi lasciavano libero, mi recavo alla falegnameria: mi piaceva l’ambiente ed ero anche ben accetto dai frequentatori abituali che a volte mi ponevano alcune domande. Uno di loro mi chiese perché avessi interrotto la scuola e quando gli spiegai che la mia famiglia necessitava del contributo lavorativo, mi disse che non era giusto interrompere gli studi per necessità contingenti.
Un giorno il falegname, Giovanni Matulli, per i filesi Gianël, mi chiese se avessi trovato giusto che soldati tedeschi, in Polonia, intimassero armi alla mano a donne e bambini di lasciare le loro case asserendo che loro erano i padroni.
Un giorno entrò un signore che non avevo mai visto prima, le persone che stavano ascoltando la radio si alzarono e gli andarono incontro per salutarlo, da questo capii che doveva essere una persona importante, dopodiché, fatti i saluti di circostanza, si mise a parlottare con Gianël. Chiesi chi fosse quel signore: era Mario Babini, un radiotecnico che costruiva radio per un negozio di Ravenna, mentre Matulli ne preparava il mobiletto esterno. Ricordo che prima di uscire, avvicinandosi a noi ci chiese come fosse la ricezione. Va ricordato che nel periodo fascista non era possibile ricevere le stazioni trasmittenti estere a causa di uno schermo di disturbo che ne rendeva difficoltoso  l’ascolto. Babini prese la radio dalla mensola e, con alcuni strumenti che aveva con sé in borsa, si sintonizzò su Radio Londra. «Avrete più materiale di discussione!» disse poi, andandosene.

Mario Babini
Babini era un romagnolo di Giovecca, ma  avendo  sposato una ragazza di Filo, viveva lì in modo quasi permanente. Era un fondatore della cellula comunista di Filo ed era un uomo di grande capacità organizzativa. In particolare ricordo che, alla caduta del fascismo il 25 luglio 1943, lo vidi seduto davanti alla bottega del barbiere intento a leggere il giornale, mentre giungeva dai paesi vicini un rumoroso corteo che inneggiava all’avvenimento. Lui disse: «Non facciamoci illusioni, la Libertà, forse, è ancora lontana».
L’uomo, di consolidata formazione politica, non smetteva mai di organizzare, attività che era in tutta evidenza nella sua natura. Aveva un modo particolare di esporre le sue ragioni e lasciava percepire con immediatezza la classe di un comandante. Ricordo un incontro a casa degli suoceri, al quale anch’io partecipai, che aveva come ordine del giorno il reclutamento di partigiani combattenti.
Sei dei partecipanti si unirono alla Brigata che operava sulle colline tosco-emiliane ed io, dopo qualche mese di latitanza, dopo che Babini fu barbaramente ucciso a tradimento sulla porta di casa dei genitori, mi unii ad una formazione partigiana operante nella Valle di Comacchio. Quella formazione era la 35° brigata Garibaldi che poi prese proprio il nome di “35a Brigata Mario Babini”.

Antonio Meluschi, il «Dottore»
Il Dottore” era il nome di battaglia del Comandante della 35° Brigata partigiana “Mario Babini”, Antonio Meluschi. Arrivò nel tardo autunno al mio paese, Filo, e prese alloggio in una casa vicino alla valle; con sé aveva la famiglia composta dalla moglie, Renata Viganò, e dal figlio Agostino, un bimbo, di quattro o cinque anni, da tutti chiamato . Nessuno poteva immaginare che questa famiglia nascondesse la sua vera attività: Il Dottore era il comandante della Brigata e l’infermiera Renata era il Commissario Politico della stessa. Per la gente che lo vedeva ogni tanto e di passaggio, erano semplicemente sfollati dalla città.

Antonio Meluschi 
(Il Dottore)
Il Dottore si distinse subito per la grande bravura e ciò determinò l’ammirazione di tutti gli antifascisti del paese. Vorrei dare la giusta memoria al personaggio, del quale a mio parere si è parlato poco, inquadrando meglio questo Comandante così chiacchierato nel bene e nel male. Meluschi era un uomo d’azione, con modi molto spicci e molto militari, e come tale non apprezzato da tutti, specialmente dalla popolazione che non amava le maniere forti.
Nel periodo della mia clandestinità non ricordo di averlo mai visto, perciò mi limito al racconto di episodi che ho saputo indirettamente. Lo conobbi soltanto a guerra finita.
La zona valliva da noi controllata era sulla rotta degli aerei che bombardavano l’Europa e rientravano alle loro basi. Qualche aereo veniva colpito e l’equipaggio si paracadutava nella nostra zona: questi aviatori erano stati informati che, in caso di atterraggio o ammaraggio in quel territorio, i partigiani li avrebbero raccolti e, in qualche modo, portati in salvo nelle loro retrovie. Non era semplice. Il percorso veniva effettuato in acque non sempre calme, le operazioni erano complesse ed io ero uno degli addetti a questo servizio.
Nei primi mesi del 1945 accadde un incidente. In una casa allagata cinque aviatori attendevano il trasbordo, reso impossibile a causa del mare grosso e ciò li innervosì al punto da disarmare due partigiani e di minacciarli chiedendo di essere immediatamente imbarcati. Ne fu informato, non so come, Il Dottore che si precipitò sul posto accompagnato dal Luogotenente Armando Montanari, detto “e’ Desk”, e riuscirono, in qualche modo che non fu riferito, a dissuadere gli ammutinati.
Ho voluto raccontare questo episodio poiché negli anni ’70 la RAI fece proprio un servizio a tal proposito, “Uomini in guerra” nel quale furono intervistati alcuni superstiti che riportarono il fatto.
Un altro episodio che mi fu raccontato mette in risalto la forte personalità di Meluschi.
Terminato il conflitto, dopo aver seppellito i morti, bisognava fare i conti con la fame. Chi possedeva una barca si dedicava alla pesca delle anguille nella Valle di Comacchio, attività che sconfinava nell’illegalità in quanto le valli erano di proprietà del Comune di Comacchio. Tuttavia, date le circostanze, vigeva ancora in quei primi mesi di Libertà la legge dell’arrangiarsi. I possessori delle barche, e io fra loro, erano quasi tutti ex combattenti, abituati ad infrangere le leggi. La pesca rendeva bene, il pescato permetteva di dare il necessario per la casa ed il rimanente veniva venduto.
Un giorno il locale Comitato di Liberazione intervenne asserendo che la risorsa della pesca doveva essere ripartita anche con coloro che non possedevano un’imbarcazione. Il Comitato fece intervenire a tale proposito IlDottore. Questi convocò immediatamente gli interessati dicendo loro che da quel giorno le regole le avrebbe dettate lui: al mattino avremmo dovuto essere tutti a terra ad orario prestabilito, mentre il pescato avremmo dovuto consegnarlo ad una persona da lui designata. Il prezzo lo avrebbe stabilito lui stesso. Aggiunse infine che avrebbe predisposto una ronda per fare rispettare tutte le regole. Il mattino successivo a terra ci fu qualche mugugno, piccoli tafferugli, forti minacce, poi la questione si normalizzò.
Nel paese si era venuta a creare nel tempo una certa sudditanza verso questo personaggio. Il Dottore era stato un grande Comandante, tuttavia la guerra era finita. Usava ancora modi militareschi, era un uomo d’azione, ma la gente aveva bisogno di pace. Dovevano cessare i rancori, doveva cessare l’istigazione all’odio e Il Dottore da questo orecchio ci sentiva poco.
Ricordo che ci fu un’assemblea nel palazzone di Filo, non ne ricordo l’ordine del giorno, ma sicuramente si trattava di una questione che riguardava il Comandante. Lui stesso era il relatore. Quando ebbe terminato ci fu qualche intervento di disapprovazione. Senza aspettare che gli interventi si esaurissero, Meluschi prese allora d’autorità la parola, bacchettò i dissenzienti e disse di avere altri impegni, sicché bisognava chiudere alla svelta l’assemblea. Il Segretario del Partito Comunista del paese, nella persona di Guerriero Vandini, da tutti conosciuto come Ghéo, prese a quel punto la parola e disse al “Dottore”, senza girarci troppo attorno, che se aveva tanta fretta poteva accomodarsi, indicando la porta d’uscita.
Da quella sera Antonio Meluschi sparì dal paese e non ricordo di averlo mai più visto. 

                                                                                                                     (IV – fine)

Una poesia e…

$
0
0


I primi auguri di Arianna










La porta nel cielo
di Orazio Pezzi

Il pianto di Arianna
ha spezzato
l'ansia dell'attesa.
Si è aperta una porta
nel cielo
L'angelo è disceso fra Voi
per dirvi
ecco il regalo del Signore
la Vita.





A TUTTI I LETTORI DELL«IRÔLA»
L’augurio di un felicissimo 2015


(da Arianna Vandini e dai nonni Agide e Diana)


Indice 2007-2014 : Storia e Geografia del territorio

$
0
0


Storia e geografia del Territorio- Annate: 2007-2014
Per conoscere la storia, l’ambiente e la geografia del territorio

Data – Titolo dell’articolo - Autore – Contenuto
 Link per l’accesso diretto


Novecento:
26.10.07 - Quei soldati filesi della Grande Guerra - B.Carlotti - Ricordo dei filesi caduti nella Grande Guerra
17.04.10 - Il ministro Rossoni a Filo nel 1938- a.v. - 12 Foto inedite ricavate dal filmato «Luce»
14.03.14 - C’è un cane fra i partigiani… - Racconto di Antonio Meluschi (trascr.e app. di Agide Vandini)
23.03.14 - Lui, «Il Dottore», lei, «L’infermiera»… a.v. - gli «Appunti» di Giovanni Pulini
01.05.14 - In ricordo di Albino Vanin – a.v. - 90 anni fa la morte del giovane Carabiniere a Filo
16.05.14 - Dedicato a Maria Margotti – a.v. - 65 anni fa la morte della bracciante filese
19.05.14 - Fiori ed onori ad Albino Vanin – a.v. -  A 90 anni dalla morte a Filo del giovane Carabiniere

Gli «Amarcord» del partigiano «Condor»(Giovanni Pulini):
19.12.14 - Partigiani e contadini - Gli «Amarcord» di Giovanni Pulini, partigiano filese (1)
21.12.14 - Requisizioni e spinosità del dopoguerra - Gli «Amarcord» di Giovanni Pulini, partigiano filese (2)
26.12.14 – Storia di due padroni - Gli «Amarcord» di Giovanni Pulini, partigiano filese (3)
29.12.14 – Mario Babini ed Antonio Meluschi – Gli «Amarcord» di Giovanni Pulini, partigiano filese (4)

La tragedia del Laconia:
18.09.08 - Un filese nell'affondamento del Laconia, 1942 - a.v.- Lo scenario di guerra ove fu disperso Silvino Felloni.
20.11.09 - Rintracciato il foglio matricolare di Silvino Felloni – a.v. -          Ulteriori notizie sul caduto filese del Laconia.

25.04.08 - Il restauro del monumento ai Caduti e la nuova stele ad Agida Cavalli - Il mio discorso celebrativo - a.v -
10.10.09 - Quei morti sulle mine tedesche - a.v. - Il sacrificio dei filesi caduti per le mine tedesche
13.09.11 - A Cà Malanca nel ricordo dei nostri partigiani - a.v. - I filesi pongono una targa ricordo al Museo
05.12.11 - Il nonno racconta - Piero Ferrozzi. –Come nacqui sotto le bombe
07.05.09 -  In memoria della nostra Maria - a.v. - 1949-2009, 60 anni fa cadeva Maria Margotti.

Filo 1944-2014:
16.01.14 - Quel tragico 1944 a Filo... - a.v. - Settant’anni dopo, la memoria di un paese martoriato (1)
23.01.14 - Un paese da bastonare... - a.v. - Settant’anni dopo, la memoria di un paese martoriato (2)
29.01.14 - Filo 1944 – Arrivano le Brigate Nere... - a.v. - Settant’anni dopo, la memoria di un paese martoriato (3)
05.02.14 - Filo 1944 – Il vile agguato a Mario Babini... – a.v. - Settant’anni dopo, la memoria di un paese martoriato (4)
11.02.14 - Filo 1944 – L’eccidio dei dieci ostaggi... – a.v. - Settant’anni dopo, la memoria di un paese martoriato (5)

Filo e Romagna:
13.11.07 - A sen di Rumagnul…         - a.v. - Il punto sul controverso Confine Nord della Romagna
07.04.08 - «Romagna», «Romagnola» e confine settentrionale - a.v. - Appunti sull’area culturale romagnola.
16.08.08 - La Romagna ci dimentica – a.v. – Filo d’Alfonsine ( o di Romagna) non esiste più…
02.07.10 - Perché Filo è diviso in due? - a.v. - La prima serata filese de’ “I Talenti”

Medioevo, Chiese e Sacerdoti:
21.11.07 - Don Lolli cappellano - a.v. - il grande sacerdote a Filo, ai primi del ‘900
26.08.09 - Cosa mi disse l’Ing. Gualandi – a.v. e Vanni Geminiani - L’edificazione della chiesa di Filo
13.02.11 - Foto-Gallery di Sant’Agata e non solo – a.v. - Una Monografia dedicata alle otto chiese di Filo
26.03.11 - Le piantine con le otto chiese di Filo- a.v. - Un aiuto a chi ha qualche dubbio
14.10.12 - Quando a Filo si pescavano gli storioni – a.v. – Com’era il territorio prima degli sconvolgimenti di fine ‘700
08.01.09 – L’antico Hospitale di San Giovannia Filo – a.v. - Monografia sulla sua storia e sulla triste fine.

Curiosità, cronache e documenti:
01.12.07 - Cosa può raccontarci la S-ciapeta -         a.v. - Cosa si nasconde dietro l’appellativo di una borgata filese.
24.03.08 - Romagna turbolenta, la signoria dei Da Polenta -  Paolo Canè - La dinastia che cedette la Riviera di Filo
03.09.08 - Pellagra e dintorni – a.v. – Parole e documenti che ci ricordano il terribile morbo
10.11.08 - Lamentele filesi datate 1920         a.v. - Cambiato tanto o cambiato poco? I servizi pubblici a Filo.
11.02.09 - Il campanile che non c’è più ... - a.v.– Abbattuto 80 anni fa e mai più ricostruito
23.02.09 -  A tu per tu con Vincenzo Monti … -  a.v. – Curiosità intorno al battesimo alfonsinese del poeta.
22.01.09 - Un’antica moneta riemerge da Po vecchio - a.v.– Trovata a Case Selvatiche, è datata al 1612
15.04.09 - Accadeva 160 anni fa. - a.v. - Il 30 aprile 1849 il Comune di Filo aderiva alla Rep. Romana.
25.04.09 - Quel giorno, 64 anni fa … - a.v. - 14 aprile 1945, una testimonianza della Liberazione di Filo.
26.10.09 - Le opere filesi del maestro Angelo Biancini - a.v.- Un patrimonio prezioso da difendere
12.12.09 - Quel gesto generoso di Sante e Frazcula -a.v. - Correva l’anno 1908, in un macero da canapa …
19.02.10 - Correva l’anno 1820… - a.v. - Tuoni, fulmini e saette sull’argentano
20.03.10 - La storia di famiglia dell’Avv. Cav. Giuseppe Vandini - a.v. - Ricerca sull’illustre argentano
23.05.11 - Alla scoperta del territorio - a.v. - Una bella serata a San Bernardino di Lugo
07.08.11 - C’è un Laghetto alla Garusola - a.v. - Un’area naturalistica a due passi da noi


Mappe, toponomastica e segnaletica (a.v.)
01.03.08 -  (1)   Introduzione  articoli dedicati al territorio filese:  http://filese.blogspot.it/2008/03/quanti-errori-nelle-nostre-mappe.html
07.05.08 -  (2)   Per una migliore segnaletica e cartografia: http://filese.blogspot.it/2008/05/per-una-migliore-segnaletica-e.html
03.07.08 -  (3)   Sez.1: Rossetta, Case Selvatiche e Vallone: http://filese.blogspot.it/2008/07/rossetta-case-selvatiche-e-vallone.html
15.08.08 -  (4)   Sez.2:   Il Borgo Ravegnano: http://filese.blogspot.it/2008/08/il-borgo-ravegnano.html
06.10.08 -  (5)   Sez.3:   Il Borgo Maggiore: http://filese.blogspot.it/2008/10/il-borgo-maggiore.html
10.11.08 -  (6)   Sez.4:   Il Borgo «Molino»: http://filese.blogspot.it/2008/11/il-borgo-molino.html
01.12.08 -  (7)   Sez.5:   La «Garusola»: http://filese.blogspot.it/2008/12/la-garusola.html
29.01.09 -  (8)   Sez.6:   La Chiavica di legno: http://filese.blogspot.it/2009/01/la-chiavica-di-legno.html
09.03.09 -  (9)   Sez.7:  Sant’Anna: http://filese.blogspot.it/2009/03/santanna.htm
09.04.09 - (10)  Sez.8:  Il «Mantello» filese :http://filese.blogspot.it/2009/04/il-mantello-filese.html
21.01.11 - Le strade di Filo d’Alfonsine – a.v. -  Cosa ci ricordano i nomi delle nostre strade
26.08.11 – Per le vie di Filo – a.v.  - L’ultima serata dei “Talenti filesi”




Indice 2007-2014 : C’era una volta

$
0
0


Articoli del blog dedicati al folclore, alla gente, alle usanze, al dialetto,  ai personaggi del territorio


Data – Titolo dell’articolo / Autore / Contenuto / Link per l’accesso diretto

Dietro qualche vecchia foto:
13.09.07 - L’album della vecchia fornace - a.v. - Note sulla mostra di foto del 1961 della fornace abbattuta.-
01.03.08 - Una foto una storia (1) - a.v. - Amilcare Ricci, Salonicco 1944
30.03.08 - Una foto, una storia (2) - a.v. - La vecchia marmora delle valli, ricordi e vicende storiche.
26.05.08 - Una foto una storia (3) - a.v. - Foto di famiglia datata 1915 con la bisnonna Lucia Bergamini (Luzijna)
03.08.08 - Una foto, una storia (3bis) - a.v. - Donne tornano dalla pompa al Baruffino. Anni ’40.
15.09.08 - Una foto una storia (4) - a.v. - Quelle partite di calcio sull’aia…
29.10.08 - Cinquant’anni fa una gita scolastica -       a.v. - Correva l’indimenticabile anno 1958
25.05.09 – Una foto, una storia (4bis) - a.v. - Silvano Rossi sulle ginocchia di Uber Bacilieri (1956).
28.07.09 – Una foto, una storia (5) – a.v. -  Filo, 1949, si manifesta per la pace
27.02.10 – Foto preziose d’altri tempi - a.v. - Tre chicche dall’album di famiglia
10.04.10 – I primi anni ’60 in tre foto di scuola - Daniele Alberti - Dall’album dei ricordi  
09.05.10 -  Gioventù filese nella golena del Po - a.v. - Come ci si divertiva oltre mezzo secolo fa


Ricerche e Ricordi:
04.10.07 - Cultura, tradizione e storia di una famiglia filese - B. Carlotti - I Vandini (Garušlir), vecchia famiglia di Filo.
03.08.09 – Com’era il mio paese – a.v. e Vittoria Corelli - Ricordi di un tempo e di una infanzia felice
11.08.09 – L’aqua bóna de’ Trumbòñ -  a.v. e Orazio Pezzi - Storia e poesia intorno alla vecchia fonte filese
18.08.09 – Filo, via Chiesa nel primo ‘900 - a.v.  - Note intorno a foto panoramiche e cartoline d’epoca
14.09.09 – Quando la spiaggia era Casalborsetti… - a.v. - Quando ci si ritrovava al mare a due passi da casa.
11.11.09 – Ricordando il tempo delle bietole – a.v. - Il vecchio zuccherificio di San Biagio d’Argenta.
27.07.10 – Una favolosa giornata… - Sofia Naponiello  - Coi miei zii sul fiume Rabbi
26.09.10 – Insieme ancora una volta …- a.v. - L’annuale ritrovo della Vecchia «Banda del Gelato alla Fragola»
01.03.11 -  A Filo tornano le corse in bicicletta… - a.v. - Un’iniziativa de’ “Il cavallino bianco”
25.11.11 – Amarcord a Giovecca di Lugo …- a.v. - Un simpatico ritorno alla pizzeria «Happy Valley»
29.02.12 – Ti ricordi il tuo vecchio paese? – a.v. – Storia e Geogr. Territorio –   Com’era il Borgo Maggiore di Filo
05.07.12 – Quando furoreggiava il circo Bidoni...- a.v. - C’era una volta – Guardando una rara foto dei primi anni Quaranta
07.02.13 - Filo, l’asilo e Don Jušèf... – a.v.  e Vanni Geminiani - Un ricordo degli anni del dopoguerra e del nostro parroco nel 60° della morte
16.03.13 - Quando a Filo si andava a teatro...  – a.v. - Storie e foto - ricordo di vecchie compagnie di attori filesi (1)
26.03.13 - Il teatro nel primo 900 a Filo – a.v. - Storie e foto - ricordo di vecchie compagnie di attori filesi (2)
30.07.13 – I vecchi tempi della Vinzinzona – a.v. – Alcune foto e documenti, un paio aneddoti e tanti ricordi
24.09.13 -  Calimero, Maramaldo e un Amaracord –a v. – I tempi della battaglia col Frampùl


Personaggi:
28.10.07 - Cömo - a.v. - Ricordo del narratore e intrattenitore filese Ricci Maccarini Mario (Cömo)
21.11.07 - Don Lolli cappellano - a.v. - il grande sacerdote a Filo, ai primi del ‘900
07.12.07 - Martin- a.v. - Ricordo del narratore filese Martin (Ezio Natali,1908-1936)
17.01.11 –  Un’immagine inedita di Martìñ… -  a.v.  – Una bella e preziosa foto anni ’20 del personaggio.
07.03.08 - Le «mondine di Filo» e i loro canti - a.v. - Le lotte, le canzoni, il coro che portò il nome di Maria Margotti
12.04.08 - Addio a Suor Giulia - a.v. -           Ricordo di Suor Giulia Giulietti, la nostra suora più amata.

Dedicati a Giovannino Tarozzi:
13.01.09 – Il filese d’acciaio… - a.v. –Giovannino Tarozzi l’uomo dei bagni di Capodanno.
26.09.09 – La lunga marcia di Giovannino -  a.v. - La tentata incredibile impresa di Giovannino Tarozzi
02.01.10 –  Quel picchiatello di nome Giovannino… -  a.v.  –Bagno di Capodanno e non solo, nelle acque dell’Adriatico.
13.08.12 – Ciao vecchio Johnny... - a.v.  -  Attualità filese – Se n’è andato un carissimo amico
14.08.12 – Ciao caro vecchio amico – Beniamino Carlotti - Attualità filese – In ricordo di Giovannino Tarozzi 
13.01.14 – Omaggio di Capodanno a Giovannino   - a.v. – Un mazzo di fiori per un vecchio amico


15.07.09 – I nuveñt’èn de’ Schéz  - a.v. e B. Carlotti - I novant’anni di Elio Brunelli.
21.09.09 – Ciao, caro, indimenticabile Vašio - a.v. –Se ne è andato un amico
02.11.09 – Gonippo, il Dottor Fiorentini e i tempi dell’Asiatica – a.v. - A proposito dell’influenza.
04.12.09 – La storia di Pépo -            a.v. -  I ricordi di naia di Giuseppe Taroni
05.02.10 – Una carpa da brividi… - Gabriele Andraghetti . – A j ò tiràt sò una göba da incurnišê…
08.03.10 -  Una famiglia di musicisti che veniva da Filo -  a.v. e B.Carlotti  Personaggi filesi   L’orchestra Coatti nel folclore romagnolo
01.05.10 – Gelati che passione …-  a.v. e B.Carlotti  –La bella storia di Cianì, gelataio filese
15.05.10 – La simpatia innata di Sintòñ-  a.v.  –Un personaggio filese da non dimenticare
06.11.10 – Dedicato a Paolo Barabani …-  a.v.  – L’uomo, piccole e grandi cose intorno all’amico e cantautore filese
16.05.11 – I trascorsi filesi di Ziridöni-  a.v.  – Nuovi spunti e documenti sul noto personaggio
Monografie:
Loris Rambelli, Paesaggio con figure (32 pagine): http://www.scribd.com/doc/55540319
Giovanna Righini Ricci, Ziridöni (4 pagine): http://www.scribd.com/doc/55351186
Agide Vandini, I trascorsi filesi di Ziridöni (10 pagine): http://www.scribd.com/doc/55543424



Dialetto, usanze tradizioni:
03.12.07 - Quando a Filo si pregava in dialetto… - Luciana Belletti -           Rievocazione di una vecchia preghiera popolare
18.12.07 - E’ zöch d’Nadêl - B. Carlotti - Rievocazione delle tradizioni locali legate al ceppo di Natale
29.12.07 -  Le antiche calàndar - a.v. - Ovvero: le antiche previsioni meteo fai-da-te…
05.02.08 - Due canti popolari - a.v. - Due testi: «In mezzo al pra’» e «Vogliam vedere il bosco»
05.02.08 - Sant’Agata che maliconia - a.v. - Rievocazione dell’antica e tradizionale festa del Patrono.
08.02.08 - Gli antichi racconti delle stalle…. - a.v. - «Leonzio e la terribile vendetta di un morto» racconto «da pavura»
03.07.08 - Quando l’amore è cieco… - Paolo Canè - Cosa può esserci dietro ai detti e proverbi dialettali
09.09.08 - Il carrettiere del tempo antico -  a.v. – Un affettuoso ricordo del nostro Šbruzai
01.01.09 -  E’ Capodanno -  a.v Detti e tradizioni romagnole di inizio d’anno.
21.03.09 - Il denaro di una volta… a.v. – Il denaro che vive ancora nel nostro dialetto.
30.04.09 -  Per capire la lapide di Masiera – a.v. e Angelo Minguzzi - Il dialetto per una lapide che ci riguarda.
09.07.09 - Una nuova ortografia per i dialetti romagnoli- a.v.- Le soluzioni di Daniele Vitali
09.07.09 - Peculiarità del dialetto tipico filese – a.v. - Varianti locali rispetto alla Romagna Centrale.
29.12.09 - E’ tempo di tressette… - a.v. –Trisët, bëcacino e marafõ, e suoi derivati, in Romagna
14.02.10 - C’est égal… Scherzi del dialetto – a.v. – Come andò davvero la storia della Catarina d Lucchi

Indice 2007-2014: Sport & Calcio

$
0
0


Articoli dedicati al calcio e allo sport  

Data – Titolo dell’articolo / Autore / Contenuto / Link per l’accesso diretto

Corsivi del filese / a.v. /:
15.10.07- Quando la dedica la dice lunga…-Corsivo storico-scherzoso dedicato a Nicola Mingazzini /
05.11.07 - Blìgul e turtlen. - Corsivo storico-scherzoso dedicato ai canarini modenesi.
02.01.08 - Tör e zentratach -  Corsivo storico-scherzoso dedicato alle torri bolognesi, calcistiche e non…
03.06.08 - Il duro mestiere del profeta - Corsivo storico-scherzoso dedicato alla promozione del Bologna.
18.02.12 – Luci e (e topiche televisive...) a San Siro -  Tre gol a San Siro, corsivo del “filese”
12.03.12 – Rifiuti & Cicles -Lazio – Bologna 1-3, corsivo del “filese”

Amici del forumrossoblù:
26.05.08 - Quando si dice il karma… - Claudio Afroditi - Diario di una sofferta giornata tinta di rossoblu.
11.06.08 - E il tappo volò via… -  Domenico Mongardi - Dialogo tra un tifoso ed una bottiglia di spumante.
03.08.08 - Intervista a «Il Filese» - Jacquesdemolay -Direttamente dal Forumrossoblu

Non solo calcio:
08.12.08 - Prima che finisca il cinquantenario…       / a.v. /Un caro ricordo di Ercole Baldini campione del mondo
22.06.09 – Omaggio a Francesco Cavicchi… / a.v. /A 54 anni dalla sua grande impresa.

Ricordi e Avvenimenti:
06.09.09 – Quella strana partita di calcio / a.v. /Uno storico incontro fra arbitri che si disputò a Filo.
26.02.09 – Ciao «Bulgaro»… ... / a.v. /Ricordo del grande Giacomo Bulgarelli
25.08.12 -  In bocca al lupo vecchio Bologna!!! - a.v. - Calcio rossoblu e non solo – Un augurio speciale da due... Leoni
02.10.12 – Noi, e gli eroi leggendari del pallone – Orazio Pezzi e a.v. - Calcio rossoblu e non solo – Il mito del Grande Torino
10.04.14 - Il calcio storico filese finalmente in rete… - a.v. - Antiche emozioni in 8 mm nel filmato che girò l’amico Lucio Leta
16.04.14 - Altri particolari del filmato… - a.v. - Appendice alla presentazione del film in 8 mm di Lucio Leta
03.06.14 - Promosso il calcio filese…- a.v. - Vinto il Torneo che dà diritto alla 2° Categoria
03.07.14 - Vecchie storie di calcio a Filo (1)… - a.v. - Foto, aneddoti e notizie storiche del calcio filese che abbiamo amato

Calcio & Vignette (/ a.v. /in collaborazione con Romano Saccani Vezzani):
13.11.12 – Se Atene piange... - a.v. - Vignetta e  lavori di Romano Saccani Vezzani, disegnatore umoristico
19.11.12 – Bologna alla riscossa - BOL-PAL 3-0: vignette di Romano S.V. e corsivo del “filese”
28.11.12 – Incidente sulla strada di Parma - Parma-Inter 1-0: vignetta di Romano S.V. e corsivo del “filese”
04.12.12 – Tre punti in saccoccia - BOL-ATA 2-1; INT-PAL 1-0: vignette di Romano S.V. e corsivo del “filese”
 18.12.12 – Un bel tris... - NAP-BOL 2-3; LAZ-INT 1-0: vignette di Romano S.V. e corsivo del “filese”
 24.12.12 – Il distacco aumenta... - INT-GEN 1-1: vignetta di Romano S.V. e corsivo del “filese”
08.01.13 - Anno nuovo ... Vita vecchia
13.01.13 - Si torna a vincere
21.01.13 - Pace e bene a Roma.. - Non hanno voluto farsi del male...
28.01.13 - C’è pareggio e pareggio -
04.02.13 - Palòñ e puletica...
11.02.13 - Giornate interlocutorie
18.02.13 - Mal di trasferta e non solo
27.02.13 - Benvenuti alla Fìra ‘d San Lazaros...
04.03.13 - Tre gol e avanti tutta...
12.03.13 - Alleluja...
18.03.13 - Ubi major...
04.04.13 - Un turno in bianco e nero... 
09.04.13 - Vengo anch’io, no tu no…
16.04.13 - Le sentenze si avvicinano
22.04.13 - Punti e spunti importanti...
29.04.13 – Vorrei tanto ma non posso
06.05.13 – C’è modo e modo
09.05.13 – Solo tre, evviva!
13.05.13 – Passata è la tempesta
20.05.13 – Stagione in archivio
02.09.13 – Chi c’è e chi non c’è
02.09.13 – La giornata dei portieri
17.09.13 – Pareggi incoraggianti
24.09.13 -  Calimero, Maramaldo e un Amaracord
27.09.13 – Chi scende e chi sale
30.09.13 – AAA Bologna cercasi
07.10.13 - Una pioggia di gol
22.10.13 – Toccato il fondo
28.10.13 – Si torna a vincere
31.10.13 – Mirabilie dalla Sardegna
05.11.13 – Giornata interlocutoria
11.11.13 -  Via Curcis
26.11.13 - Buon pareggio
02.12.13 - Chi non perde e chi non vince
17.12.13 - Batoste inquietanti
23.12.13 - Vittorie che pesano
08.01.14 -  Si ricomincia proprio male
14.01.14 - Coi brodini si fa poca strada…
20.01.14 - Quei gol nel finale…
27.01.14 - Se mancano le munizioni…
03.02.14 - Cadono le braccia…
10.02.14 - Alleluja… Deus vult!
17.02.14 - Chi impreca e chi gode…
24.02.14 - Al di là del risultato…      
03.03.14 - Il gol questo sconosciuto…
11.03.14 - Sarà battaglia fino alla fine…
17.03.14 - Inter a vele spiegate, Bologna affonda…
24.03.14 - Il miracolo di Lazaros…
29.03.14 - E’ un incubo…
03.04.14 - La discesa continua…
06.04.14 - Un pareggio a San Siro…
14.04.14 - Fasi cruciali…
20.04.14 - Il Sassuolo non ci sta…
27.04.14 - Se i ragni avessero i denti…
05.05.14 - Il supplizio è al culmine…
11.05.14 - Mesto addio alla serie A…
19.05.14 - Fine dell’agonia…
http://filese.blogspot.it/2014/05/fine-dellagonia.html
Viewing all 195 articles
Browse latest View live